Unica arma il colore della pelle

 

 

Alla Festa del Cinema di Roma che si svolge in questi giorni, mi è capitato di vedere due film statunitensi, entrambi di autori neri ed entrambi tratti da omonimi romanzi, che presentano tematiche simili: i giovani neri, l’amore, la polizia che li perseguita, la giustizia che non li difende, la famiglia come rifugio. Sono If Beale Street Could Talk (Se la strada potesse parlare) e The Hate U Give (L’odio che ci date). Tematiche proprie degli States da decine di anni, ma che che oggi riacquistano intensità nel clima truce e divisivo dell’America di Trump. Ma sono attuali anche da noi, sia per i toni di xenofobia che stiamo vivendo, sia per la vicenda Cucchi e altre simili che richiamano comportamenti violenti della Polizia rimasti pressoché impuniti, sia per l’incombente rischio di una liberalizzazione dell’uso difensivo delle armi.

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If Beale Street Could di Barry Jenkins (Moonlight), ambientato nella Harlem degli anni Settanta, può essere definito un raffinato film “melò”. La famiglia è l’ambito di protezione di una vita difficile e di condivisione delle difficoltà, una sorta di muro difensivo che respinge il mondo dei bianchi. Ma al di la di quel muro due giovani innamorati, uniti in un legame che sembra più forte di tutto, si trovano a lottare contro una diseguaglianza sociale ed economica che affonda le sue radici nel razzismo ancora diffuso. Così l’affannosa ricerca di una casa negata dai proprietari bianchi diventa il prologo di un dramma ancora più forte che nega il diritto al futuro. Ma l’amore, finemente rappresentato nella sua casta intensità, consente di riscattare la sofferenza per l’ingiustizia e trova nella nascita di un figlio la speranza del ritorno alla vita.

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The Hate U Give di George Tillman Jr. (The Inevitable Defeat of Mister and Pete; The Longest Ride) potrebbe invece essere definito un film politico nella tradizione cinematografica del riscatto afroamericano, se non fosse che la figura complessa della giovane protagonista apre diversi scenari di lettura. E in questo caso occorre ricordare il libro (trad. it. Il coraggio della verità) scritto da una giovane donna nera, Angie Thomas, al quale il film resta aderente. Il titolo viene da un acronimo di Tupac Shakur, “THUGLIFE: The Hate U Give Little Infants Fucks Everyone”, l’odio che circonda i bambini avvelena la società”. La scrittrice si è ispirata all’omicidio di Oscar Grant, un ragazzo nero disarmato, da parte di un poliziotto, nel 2009, notte di capodanno, ad Oakland.

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La sensibilità della giovane scrittrice, bene tradotta in film dal regista Tillman, si riversa nella figura della sedicenne testimone dell’assassinio, raccontandone la presa di coscienza di “nera” e il transito nella maturità. La tragedia della uccisione dell’amico abbatte la maschera adolescenziale che la giovane si era imposta per vivere amicizie ed amori sentendosi “bianca”, e la riporta alla sua reale condizione di “diversa”.

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Ma la narrazione non si riduce alla semplificazione dei neri come vittime e dei bianchi come carnefici, suggerendo invece come l’odio che nasce dalla emarginazione e diseguaglianza sia il vero fattore di disagio e di conflitto. C’è l’odio dei poliziotti che vedono in ogni nero un potenziale nemico armato e sparano a prima vista – molto belle le parole del padre della ragazza: “è impossibile per un nero essere disarmato se la propria arma è il colore della pelle” – e c’è l’odio del nero che dalla propria emarginazione ha trovato giustificazione per pratiche illegali come lo spaccio, oppure violente come la rappresaglia. Così, senza dichiararlo apertamente, il film ci trasporta dalla guerriglia tra neri e polizia ad una speranza di pacificazione futura. E ancora una volta i giovani con la loro capacità di esprimere amore sono l’unica possibilità.

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