Il tramonto della egemonia degli Stati Uniti d‘America.

Dalla fine della Seconda guerra mondiale e ancora più dalla caduta del Muro di Berlino, abbiamo avuto la sensazione che gli USA non avessero reali avversari che potessero contrastarne l’egemonia economica e militare: un impero, per taluni “del bene”, per altri “del male”. Non voglio dire che gli Stati Uniti non avessero conflitti con altri paesi, tutt’altro, perché sempre nel dopoguerra sono stati impegnati in guerre lontane, come è anche vero che i rapporti con la Russia postsovietica e ancor più con la Cina ed altri paesi orientali non sono mai stati distesi.

Paradossalmente, anche con le guerre perse (Vietnam) o sbagliate (Iraq) e con il precipitoso ritiro da presídi armati (Afghanistan, Siria, ecc…) gli USA sono rimasti per almeno settanta anni un riferimento egemone per i paesi occidentali e una pericolosa minaccia per il blocco orientale. La sconfitta nel Vietnam, prima che sul campo, era stata subita in patria con le rivolte giovanili di piazza e dunque, alla fine, vissuta come rinascita di una “nuova America” pacifista; la solidarietà internazionale dopo l’attacco alle Torri Gemelle; il fallimento in Iraq addebitato a Bush Junior e riscattato da Obama; il disimpegno militare in Afghanistan e Siria considerato un atto di distensione internazionale; altrettanto dicasi per i tentativi di mediazione tra Israele e Palestina. Insomma, nonostante l’aggressività militare e lo strapotere economico-finanziario, a livello internazionale gli USA restavano la bussola del mondo intero.

Anche nel campo delle scienze, delle arti e in generale della cultura, gli Stati Uniti sono stati i più forti. Qualche incrinatura c’è stata nel campo tecnologico, dove già crescevano Cina e paesi dell’estremo oriente, se non altro perché la generosa offerta di manodopera a basso costo spostava parte degli investimenti in tecnologia e soprattutto nel digitale, in quelle direzioni. Ma ormai l’America aveva sottratto all’Europa il primato nelle arti figurative, nel cinema, in letteratura e soprattutto nella musica; la maggior parte del mondo dello spettacolo si trasferiva nelle piattaforme dello streaming, quasi tutte multinazionali nate negli USA. Eppure, qualcosa oggi sta accadendo agli Stati Uniti d’America.

Nella politica interna (ma con pesanti ricadute internazionali) quella che è ancora definita “la più grande democrazia del mondo” si trova nella impossibilità di scegliere un leader di prestigio riconosciuto: stretta tra il secondo mandato di un anziano e malfermo rappresentante del Partito Democratico e il ritorno del protagonista delle più tragicomiche, ma comunque gravi vicende mai capitate a causa di un Presidente americano, gli USA stanno perdendo credibilità anche presso i paesi amici. La data del 6 gennaio 2021 rimane un punto di non ritorno.

Nelle cronache quotidiane pesa sempre più lo sconsiderato libero mercato ed uso delle armi. Quelle in dotazione della polizia sparano sempre più facilmente a ragazzi neri o sbandati, ma quelle d’uso privato continuano a creare massacri, nella più assoluta indifferenza della politica e di gran parte dell’opinione pubblica americana.

Nella produzione artistica sembra scomparsa la capacità inventiva e innovativa che la Pop Art aveva diffuso nel dopoguerra; la grande letteratura che con la Beat Generation di Burroughs, Kerouac e Ginsberg aveva rappresentato il nuovo mondo dei giovani si è spenta insieme alla domanda di cambiamento auspicata dai movimenti del Sessantotto; si fanno più rari i maestri delle emozioni come Bukowski o quelli del racconto come Roth, tanto che è un grande poeta-musicista come Dylan a salire sul palco del Premio Nobel della letteratura.
La musica statunitense subito alla fine della guerra ci aveva incantato con il rhythm and blues, poi con le grandi performance Rock and Roll di Bill Haley ed Elvis Presley, con Bernstein, maestro indiscusso di una musica trasversale, con gli eventi di Woodstock e di Nashville, nuova capitale della musica Rock e Country; infine aveva portato sui palcoscenici internazionali grandi star come Michael Jackson, Whitney Huston, Mariah Carey sino a Prince e Madonna. Oggi – è proprio il caso di dire – la musica cambia e la produzione USA cede vendite ed ascolti ai gruppi musicali europei.

Ma è nel cinema che si avverte la caduta di qualità e soprattutto di capacità innovativa. Ci siamo nutriti di cinema americano per quasi ottanta anni, apprezzando tutti i “generi”, dal western alla fantascienza, dal thriller all’orrore, dai colossal storici alle guerre, dal cinema sociale a quello dei grandi scandali. Un cinema che rappresentava gli Stati Uniti come un paese tormentato da ingiustizie e violenze, ma che si concludeva quasi sempre con il trionfo del sogno americano o della vittoria dei giusti e degli onesti. Sarà che i costi crescono e i ritorni di botteghino impongono temi commerciali più facili, sarà che le “serie”, un cinema ad episodi, moltiplicate dalle piattaforme di streaming, per ragioni commerciali devono avvicinare un pubblico di gusti facili che nel cinema cerca solo divertimento o passatempo; sarà che i grandi sceneggiatori e registi, invecchiando, ripropongono tematiche già esplorate; ma il cinema americano sta perdendo terreno verso un cinema più coraggioso e sperimentale che proviene ormai non solo dall’Europa, ma da paesi orientali e/o mediorientali che partecipano con successo e premi ai festival, mentre i grandi eventi hollywoodiani, Oscar o Golden Globe, sono ridotti a show in onore di vecchie glorie. Lo confermano anche le recenti proteste di piazza e il blocco degli Studios di autori e sceneggiatori che hanno coinvolto l’intero mondo del cinema statunitense.

In Italia per anni si è discusso pro o contro gli Stati Uniti. Spesso la sinistra giovanile, ma anche qualche partito, ne ha preso le distanze, altri ne hanno sempre condiviso principi e azioni; ancora oggi, tutti partiti, con piccolissime e marginali eccezioni, non vogliono – e non possono – andare contro l’ “America”, perché l’ “America” ancora rappresenta l’occidente. Personalmente credo che ognuno di noi guardi a questo paese con un sentimento misto di apprezzamento e rifiuto, esagerando potremmo dire “tra amore e odio”. Ma il tempo è cambiato: il mondo si sta dividendo di nuovo tra “Occidente” e “Oriente”. Nel disequilibrio globale che genera guerre, nuovi equilibri si stanno formando. Gli Stati Uniti non sono più i padroni del mondo e faticano ad essere la guida dei paesi occidentali, mentre si forma il BRICS, un blocco eterogeneo ma accomunato dalla opposizione agli USA e alla NATO, che mette insieme democrazie di ispirazione socialista come il Brasile, il Sudafrica e l’India, con regimi oligarchici come la Cina e autarchie come Russia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi.

Concludo queste note tornando al tema iniziale, quello delle nuove elezioni del Presidente degli Stati Uniti. Il popolo americano negli ultimi anni – con Biden, o nonostante Biden – ha visto peggiorare la sua condizione: inflazione, aumento del costo dei mutui e della benzina, stanziamenti per le guerre e il grande problema dell’immigrazione. Anche i giovani e i movimenti pacifisti iniziano ad essere stanchi di una politica estera costosa ed infruttuosa. Il sovranismo di Trump prende il sopravvento e la prospettiva di un ritorno dell’anziano tycoon diventa sempre più possibile. Le parole di Trump di questi giorni non solo alludono ad una immaginifica capacità di fermare le guerre, ma alla possibilità che gli Stati Uniti ritornino a quella condizione di chiusura nel loro continente che era stata propria degli inizi, rotta solo nel XX secolo a partire dalle due guerre mondiali. Il distacco dai problemi del mondo, incluso quello ambientale, secondo molti analisti, potrebbe portare gli USA ad allontanarsi dall’Europa ed uscire dalla NATO, ovvero alla fine della NATO. In questo caso si verificherebbe una significativa novità, con la formazione di un’unica forza militare dell’Unione Europea e, insieme, un rafforzamento federativo degli stati dell’Unione. Niente male, ma difficile, a mio avviso, che accada nel contesto globale liberista fondato sul mercato e sugli scambi commerciali. Più facile, anzi probabile, che lo sviluppo scientifico, tecnologico e culturale dei paesi avanzati o emergenti, orientali e mediorientali, sposti a loro favore il baricentro economico-finanziario del pianeta, con incognite enormi sul piano geopolitico e militare.

