UCRAINA, IL DILEMMA DEGLI AIUTI

Il primo febbraio 2024 l’Unione Europea ha deliberato aiuti all’Ucraina per 50 miliardi di euro sino al 2027, con possibilità di revisione nel bilancio di previsione successivo. Sono risorse che al momento Zelensky impiegherà per rifornirsi di armi. Se fossero stati erogati a guerra finita avrebbe avuto il giusto senso; invece l’Europa si sostituisce agli Usa nell’entità e rapidità dell’appoggio militare all’Ucraina. E la guerra continua. Questa risoluzione ha aperto un dibattito nella sinistra progressista tra le diverse visioni di “pacifismo”.

Credo che nessuna persona che abbia un minimo di consapevolezza storico-politica, o almeno sia fornita di buon senso, immagini che l’Ucraina possa vincere una guerra contro la Russia, contro la sua potenza militare e le sue armi atomiche. La resistenza all’invasione dei carri armati lungo le linee di confine mentre piovevano bombe per mesi è stata eroica, come anche la capacità di riprendere  parte delle regioni occupate dai Russi dal 2014, ambiguamente confermate nel 2015 con gli effimeri accordi Minsk II, e poi incrementate durante l’offensiva armata. Ricordo che nella successiva controffensiva ucraina – era l’estate del 2023 – si accese qualche speranza di pace, facendo seguito a cenni di disponibilità di Putin. Ma Zelensky allontanò ogni possibile compromesso reclamando l’integrità dei confini dell’Ucraina fissati nel 1990, inclusi Donbass e Crimea. E la guerra continuò e continua ancora con la Russia che riprende terreno e altre terribili distruzioni: oggi l’Ucraina su tutto il versante est e sud ha le sue maggiori città  massacrate dai bombardamenti, mentre quasi la metà dei suoi abitanti è fuggita all’estero.

da ISW – Institute for the Study of War

Da noi, in Italia, nessuno nega il diritto alla difesa dell’Ucraina, ma cresce l’istanza che la guerra finisca seppure con ragioni diverse: la destra di Salvini (con qualche malcelata vicinanza di Fratelli d’Italia) in base alle mai nascoste simpatie per Putin; il Movimento 5 Stelle per occupare un’area di consenso elettorale pacifista un tempo appartenente al Partito Democratico; una parte della sinistra che sottolinea il mancato rispetto della NATO nell’impegno di non spostarsi ad Est; lo stesso PD e altri partiti progressisti, che parlano di pace in modo ambiguo, sostenendo che aiutare Zelensky con le armi serve a raggiungere una pace più duratura.

L’Italia progressista è spaccata in due. Ma sia chi chiede la pace, sia chi vuole continuare la guerra contro Putin, tutti sono pienamente consapevoli che quando la guerra finirà, a meno di una catastrofe planetaria,  non ci sarà altra possibile soluzione territoriale se non il ritorno alla situazione precedente all’invasione russa del 24 febbraio 2022. Ma se il massimo punto di arrivo è questo, che senso ha continuare a far morire le persone e distruggere le città? Davvero siamo convinti che se non ricacciamo indietro la Russia ai confini del 1990, l’intera Europa sia in pericolo? In realtà L’Ucraina la sua guerra l’ha vinta nel momento stesso in cui ha impedito ai carri armati di Putin di arrivare a Kiev, di catturare Zelensky per annientare il suo governo e prendersi, con la capitale, l’intera Ucraina. Ma orientarsi alla pace, indipendentemente da vinti e vincitori è sempre un compromesso; questo non ci sarà mai chiedendo il totale ritiro dei Russi anche dai territori occupati dieci anni prima. Così la guerra continua in una paradossale convergenza di intenzioni tra Zelensky e Putin.

L’ibridazione delle etnie, delle culture e delle lingue, le libertà del mercato, la facilità delle informazioni, la velocità degli spostamenti e lo stesso fenomeno delle immigrazioni, ci stanno consegnando un mondo diverso, in cui il concetto di “nazione” perde senso. I confini tendono a scomparire, diventano limiti effimeri, barriere posticce anche se di cemento, così anche il significato di “patria” decade a strumento di propaganda del consenso, alibi di una lotta per il potere o per la supremazia internazionale che crea conflitti e guerre. Resta la destra sovranista e il pensiero di alcuni nostalgici a credere – o far finta di credere – ai valori della “patria” confondendoli con quelli della “memoria”. Resta l’esigenza di uno “stato”, di un  ordine sociale e politico. I popoli, anche quelli più poveri o dispersi, più che una “patria” vogliono una “loro terra” su cui vivere liberamente per costruire un futuro; la vicenda della Palestina ne è esempio. L’identità è quella che una comunità o un popolo costruisce giorno per giorno, nelle relazioni e non nelle contrapposizioni, facendo tesoro del passato e guardando al futuro.

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