UNO SGUARDO SUI 45 ANNI DELLA BIENNALE DI ARCHITETTURA DI VENEZIA

Dopo alcune esposizioni promosse dalla Presidenza di Carlo Ripa di Meana e curate da Vittorio Gregotti, inserite nel cartello delle iniziative della Biennale nel settore Arti Visive, dal 1980 la Mostra di Architettura, presidente Giuseppe Galasso e direttore Paolo Portoghesi (che poi ne fu presidente per dieci anni), divenne un settore stabile della Biennale di Venezia, che oggi si alterna ogni due anni con la Biennale dell’Arte. Sin dalla prima edizione venne considerata una delle manifestazioni internazionali di Architettura più seguite, proponendosi non solo come esposizione di progetti ed opere contemporanee, ma anche come testimonianza dello stato di una disciplina fondamentale nello sviluppo della umanità proprio nella imminenza del XXI secolo. Avviata da Paolo Portoghesi nel vivo del dibattito sul linguaggio architettonico post-moderno (La Presenza del Passato,1980) e da una incursione nel mondo Islamico (1982), proseguita da Aldo Rossi assumendo Venezia e la “venezianità” come occasione per discutere sul rapporto tra architettura contemporanea e città storica (Progetto Venezia,1985) e su un maestro dell’architettura olandese moderna, (H. Petrus Berlage, 1986), la Biennale si orientò nelle edizioni successive curate da Dal Co (1991) e Hans Hollein (Sensori del futuro. L’architetto come sismografo,1996) sulle opere di architetti contemporanei.

Proprio all’inizio del nuovo secolo, con l’edizione di Massimiliano Fuksas (Less aesthetics more ethics, 2000), per la prima volta la mostra di Venezia provò ad indagare il compito dell’architetto in relazione alla complessità e conflittualità del mondo contemporaneo, sia dal punto di vista sociale che naturale: era una apertura  a tematiche più generali. Dopo le edizioni che guardavano al presente proiettato al futuro, di Deyan Sudjic (Next, 2002) e Walter Forster (Metamorph, 2004), quella di Richard Burdett (Città, Architettura e Società, 2006) si allontanò dal progetto di architettura in sé, per guardare al fenomeno delle urbanizzazioni e delle metropoli nell’intero pianeta, senza compiacimenti e con poche speranze. Forse in risposta agli accenti quasi distopici di Burdett, nelle successive edizioni  l’attenzione fu di nuovo volta al progetto di architettura: da Aaron Betsky sugli aspetti sia formali che ambientali (Out there: architecture beyond building, 2008); da Kazuyo Sejima per un’architettura minimale aperta sia in termini spaziali che sociali (People meet in Architecture, 2010); infine da David Chipperfield con una particolare attenzione alla continuità/discontinuità tra diverse generazioni di architetti, (Common Ground, 2012).

La forte personalità di Rem Koolhaas (Fundamentals, 2014) non poteva che rompere gli schemi delle mostre precedenti, articolando tre diverse interpretazioni del tema generale. Ai Giardini, nei padiglioni nazionali ha chiesto ai curatori di esprimere i caratteri fondativi e generali della tradizione architettonica del loro paese e al tempo stesso di vederne l’evoluzione/trasformazione/ibridazione nel tempo contemporaneo. Al Padiglione Centrale, tenendosi volutamente lontano dalle questioni formali, ha messo in scena e classificato, tra tecnica ed ironia, gli elementi tipologici, costruttivi e funzionali dell’architettura. Infine, nelle Corderie ha celebrato un omaggio all’Italia – il “Mondoitalia” – incrociando architettura, cinema, danza teatro e musica.

Come altre volte, dopo una edizione di rottura, si è tornati  a parlare del progetto di architettura, ma stavolta con mostre che ne valorizzano il significato etico e sociale. Alejandro Aravena (Reporting from the Front, 2016) si concentra su una architettura della semplicità, della responsabilità e del bene comune; segue l’edizione di Yvonne Farrell e Shelley McNamara (Freespace, 2018), che pone al centro dell’attenzione la questione dello spazio aperto che deve essere libero, accogliente e gratuito. Dopo la pandemia covid, che sospese per alcuni anni gli eventi della Biennale, ancora di più la mostra si concentrò su  una architettura attenta ai cambiamenti climatici, alle sensibilità sociali e alla necessità di capire come sarà la vita sul pianeta terra: Hashim Sarkis (How we will live together? 2021) si interroga sul futuro ordinando la sua mostra su scale diverse: dall’individuo al pianeta intero, passando attraverso i temi dell’abitare, delle comunità e del paesaggio; mentre Lesley Lokko (The Laboratory of the Future, 2023) viene invitata a curare un mostra che porti in primo piano le esperienze di giovani professionisti africani, architetti e non solo, per affermare una più ampia visione dell’espressione architettonica che si confronti con i temi centrali della mostra decolonizzazione e decarbonizzazione, aprendo nuove prospettive di vita.

Il 10 maggio di questo 2025 si è aperta la XIX edizione della Mostra di Architettura della Biennale di Venezia, curata da Carlo Ratti, Intelligens, Natural, Artificial, Collective, della quale scriverò in altro articolo.

Per quanto riguarda i curatori del Padiglione Italia inaugurato nella Biennale Architettura del 2006 con la Mostra titolata VEMA, La città nova, curata da Franco Purini, oggetto di ampio e contradditorio dibattito, ricordo particolarmente i contributi offerti da due cari colleghi ed amici oggi scomparsi, Claudio d’Amato e Francesco Garofalo.  Dal 2006 al 2025 si sono susseguiti i seguenti curatori:

  • 2006. Franco Purini
  • 2008. Francesco Garofalo
  • 2010. Luca Molinari
  • 2012. Luca Zevi
  • 2014. Cino Zucchi
  • 2016. TAM Associati
  • 2018. Mario Cucinella
  • 2021. Alessandro Melis
  • 2023. Collettivo Fosbury Architecture
  • 2025. Guendalina Salimei

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