Dal 2009 (governi Berlusconi e Monti), con l’apparente giustificazione della crisi economica e del debito pubblico e con l’alibi di un mondo accademico ipertrofico, è stato avviato un forte taglio alle risorse degli Atenei italiani. In realtà il motivo era la scarsa considerazione per la formazione e la ricerca qualificata, non considerata prioritaria, secondo lo slogan “con la cultura non si mangia”.
Il Fondo Finanziamento Ordinario (FFO) delle Università pubbliche, che copre la maggiore parte delle spese degli atenei, è stato ridotto dell’11% risultando pari allo 0,42% del PIL italiano, contro l’1,5% di Germania e Francia. A causa della crisi e della spending review diminuivano anche i contributi di altre fonti pubbliche (Regioni, Provincie, comitati universitari locali). Contemporaneamente venivano avviati una micidiale stretta del turnover sia del personale docente che tecnico-amministrativo, una riduzione del finanziamento per i progetti di ricerca (PRIN), una riduzione delle borse di studio e di quelle dei dottorati di ricerca, una riduzione del numero dei corsi di laurea e infine l’abolizione degli scatti di carriera per i docenti (condizione molto penalizzante per i ricercatori) . Aggiungendo il fallimento della riforma del 3+2 (lauree triennali e magistrali), arrivata in Italia troppo tardi e senza relazione con gli sbocchi professionali, ne è scaturito un disastro sia per gli studenti, sia per la valorizzazione dei giovani ricercatori. Oggi le iscrizioni all’Università sono diminuite in quasi tutti gli Atenei e i giovani studiosi migrano all’estero.
Naturalmente stiamo parlando del sistema universitario pubblico che oggi conta 67 Atenei. In questo contesto poco è stato fatto anche con i governi Letta e Renzi, mentre il governo Gentiloni, spento troppo presto, è riuscito solo ad incrementare i fondi per i progetti di ricerca di rilevanza nazionale (PRIN). Un errore della politica italiana (quasi atavico, perché risale agli anni del post-sessantotto) è stato quello di separare il concetto di diritto allo studio da quello di valorizzazione del merito. Liberalizzare nel 1969 gli accessi agli studi universitari indipendentemente dalla preparazione nella scuola superiore (licei, istituti tecnici e professionali, ecc…) è stata una riforma guidata da un principio legittimo (l’università aperta a tutti), ma non accompagnato da una riforma seria della scuola secondaria, né da una riforma degli studi universitari che considerasse interessi, capacità e meriti sia dei docenti che degli studenti. Un bluff, dunque, che, progressivamente negli anni, ha attivato ritardi nei tempi di laurea e ingolfamenti, obbligando molti corsi di laurea alla pratica del numero chiuso.
Ora, mi sembra che lo stesso errore sia nell’animo di coloro – a sinistra – che propongono di abolire le tasse universitarie in nome del “diritto allo studio”. Le tasse, per legge, non devono superare il 20% del FFO e mediamente coprono circa il 15% dei fondi degli Atenei. Anche se graduale nel tempo e commisurato al reddito, lo spostamento delle tasse universitarie in carico al Fondo di Finanziamento Ordinario previa ulteriore tassazione dei redditi (suppongo un incremento dell’IRPEF) avrebbe due conseguenze negative: la prima andrebbe in controtendenza rispetto al principio della riduzione delle tasse in regime di ripresa economica, il secondo impedirebbe allo stato – caricato del problema di reperire le risorse sostitutive delle tasse universitarie – di investire ulteriormente nell’università per renderla di pari dignità europea. E per investimenti io considero al primo posto la valorizzazione dei giovani ricercatori e l’avvio della loro carriera (un esempio: in Italia i docenti sono 56.000 contro i 185.000 in Inghilterra); poi l’efficienza amministrativa; il numero e la qualità delle strutture non sempre adeguate, soprattutto le residenze studentesche; quindi borse di studio per studenti e ricercatori; bonus per i trasporti e per alloggio e vitto agli studenti fuori sede.

In altri termini, al di la del fatto che la mancata iscrizione all’università, per quanto ho potuto considerare in quaranta anni di servizio e responsabilità istituzionali, molto raramente dipende dal costo delle tasse, al di là del fatto che un aumento della fiscalità per sostenere le università potrebbe apparire ingiusto per chi non ne usufruisce, al di la del fatto che basterebbe un regolamento MIUR che fissasse le tasse attuali in relazione al reddito (oggi già lo sono in relazione all’ISEE, ma in regime di autonomia di ateneo), credo che lo stato dovrebbe investire nelle università molto di più del miliardo e settecento milioni calcolati come valore complessivo delle tasse universitarie attuali. Dunque, accanto a nuovi, forti investimenti statali, le tasse, ovvero le quote di iscrizione, dovranno restare, opportunamente rimodulate, anzi, incrementate proporzionalmente ai redditi familiari più alti. Se l’università, la competenza e la cultura sono valori, lo devono essere anche nella considerazione delle famiglie. Tutto il resto è demagogia elettorale.