I brevi commenti su film in uscita che scrivo su questo blog in genere sono relativi ad opere che meritano interesse sia per i risultati formali che per i contenuti. Il caso di Come un gatto in tangenziale è diverso, perché lo ritengo un film sbagliato, anzi, peggio che sbagliato. Ma occorre parlarne.
Il regista Riccardo Milani (anche sceneggiatore insieme ai consueti Andreotti, Calenda e Cortellesi) è un prolifico e competente professionista di cinema e televisione, che si iscrive nel genere della commedia all’italiana. I suoi film ottengono spesso un buon successo di pubblico. Il recente Scusate se esisto ha avuto anche consenso dalla critica. Come un gatto in tangenziale affronta il tema della distanza sia fisica che sociale tra centro e periferia di Roma, quindi molto attuale in relazione alle condizioni di una metropoli in grave sofferenza. Ma il valore del film si esaurisce nella sua idea iniziale. Lo sviluppo della storia e la restituzione cinematografica sono non solo scadenti, ma, a mio avviso, irritanti. E mi spiego.
La “commedia all’italiana” è una consuetudine cinematografica che si fonda sulla caricatura di profili umani di varia estrazione sociale e territoriale giocando sull’aspetto fisico, il dialetto, le debolezze e le frustrazioni. Lo spettatore da una parte si identifica nei personaggi, dall’altra ci ride sopra. Senza volere fare riferimento ai “grandi” del passato, in grado di fondere dramma e commedia in un realismo che rendeva le maschere credibili (in questo senso il capolavoro è Brutti, sporchi e cattivi di Scola), il pregio di questo genere, al di la di alcune cadute di cattivo gusto, è sempre stato quello di eludere questioni reali sollecitando risate facili (basti pensare ai cinepanettoni natalizi). Come dire, film forse volgari e di bassa levatura, ma che non fanno male a nessuno.
Ma non si può rappresentare un tema così duro come la decadenza di una metropoli drammaticamente divisa tra centro e periferia, solo esasperando contesti e personaggi. Fa male vedere gli abitanti dei quartieri popolari agli estremi della città tutti grassi, sporchi, malvestiti, sboccati e disonesti. E fa ancora più male vedere rappresentati extracomunitari di etnie africane od orientali che vivono nella sporcizia solo impegnati a cucinare cibi puzzolenti. Fa male, non tanto perché rappresenta una realtà esasperata, quanto perché non vuole essere un film che indaga il fenomeno e lo inquadra nella sua giusta dimensione, e neppure un film che trasfigura il reale in grottesco, ma un film che provoca derisione e risata grossolana. Simmetricamente è insopportabile la consueta e trita rappresentazione della borghesia colta e benestante dedita solo a raccontarsi stronzate radical-chic su una spiaggia di Capalbio.
Come cittadino romano, poi, sono indignato nell’assistere a questa dannazione dell’immagine di Roma sempre meno amata come capitale e sempre più vista come ricettacolo di immondizia umana da una parte e di intellettuali scemi dall’altra. Riccardo Milani, come anche gli altri sceneggiatori – c’è pure la sorella del ministro Calenda – sono romani: che servizio credono di fare alla loro città? Che messaggio trasmettono? Gli consiglierei di avere lo stesso rispetto per Roma che c’era nel cinema dei “grandi” di un tempo, ma che c’è ancora in altri film recenti di giovani autori. Si può anche far ridere senza deridere.