
Di guerre nel mondo ce ne sono tante, ma noi occidentali viviamo con emozione solo quelle che ci toccano da vicino. Oggi è il caso della guerra in Ucraina e di quella in Palestina, che hanno scompaginato l’illusione di vivere in tempo di pace. Non ci sarebbe nulla di strano se questa “emozione” producesse punti di vista diversi, purché bene motivati. Invece una delle conseguenze di come stiamo vivendo dall’esterno – ma non troppo dall’esterno – queste guerre, è che l’emozione spesso si trasforma in un poco edificante spettacolo di “tifosi” in conflitto tra loro, che vede protagonisti non solo i due storici schieramenti politici di destra e di sinistra, ma molti giornalisti e molti intellettuali – esperti, o forse no – di conflitti bellici.
A parte qualche sceneggiata di piazza, di cui parlerò più avanti, nei paesi in cui la democrazia sembra ancora reggere alle contraddizioni del presente il conflitto di opinioni resta confinato in ambito dialettico: nessuna violenza. Ma entrambe le parti in causa usano quasi sempre un artificio retorico per me insopportabile: si inizia lo scritto, l’intervento nei talk-show o la dissertazione nei dibattiti, con una affermazione favorevole al punto di vista opposto al proprio, solitamente contenuto in poche righe o parole. Ma subito dopo c’è un “ma”, che svela come la premessa fosse un dispositivo per disarmare l’avversario e potere esprimere in modo ampio e articolato il proprio convincimento contrario.

Sulla guerra in Ucraina lo schieramento che in Italia giustificava l’invasione russa era promosso da pochi, con visioni storiche ardite se non paradossali a fronte della plateale, arbitraria e violenta aggressione dell’armata di Putin nel febbraio 2022. Semmai la suddivisione in fazioni riguardava la dimensione internazionale, dove, come sappiamo, pesa la distinzione tra il blocco delle democrazie occidentali e quello delle autarchie orientali e mediorientali. L’Ucraina si è difesa e, con l’aiuto dei paesi occidentali, ha respinto l’attacco, tornando ai confini precedenti all’invasione. A mio avviso questa è una vittoria. Però restano in ballo le precedenti occupazioni russe di Donbass e Crimea, sulle quali inizia a diffondersi un pensiero favorevole alla sospensione dei combattimenti e l’avvio di trattative per la pace. Resta il punto di vista opposto sostenuto dal governo ucraino con l’appoggio della NATO, favorevole alla prosecuzione sine die della guerra sino alla (ormai improbabile) riconquista ucraina anche delle regioni occupate dalla Russia nel 2014.

Ancora più complicata ed estrema è la situazione della guerra in Palestina. La gran parte del mondo, in nome di una visione di rispetto assoluto per l’essere umano, non accetta come “danni collaterali” le vittime civili di una guerra e condanna i bombardamenti quando uccidono migliaia di innocenti. Solo l’integralismo religioso islamico e il terrorismo che ne sposa i disvalori sono estranei a questo principio e non mettono l’uomo e la sua vita come fondamento etico. In un articolo sul Messaggero (6 ottobre 2023), Fernando Adornato condivide l’orrore per le migliaia di civili uccisi e aggiunge “… Per Hamas, la vita vale meno di zero. Non solo quella degli israeliani, massacrati senza pietà il 7 di ottobre. Ma anche quella dei propri sudditi palestinesi usati come donatori di sangue di una causa che richiede lo sterminio degli ebrei. Ciò che vale anche per gli ayatollah di Teheran che non solo foraggiano Hamas, ma per i quali un velo vale più della vita di una ragazza.” Non si può non essere d’accordo con questa premessa. Ma, segue il “ma”.

Lo stesso articolo infatti ricorda come le decine di migliaia di morti civili nei bombardamenti della Seconda guerra mondiale fossero stati giudicati inevitabili per estirpare dal mondo il male del nazismo, perché la libertà è l’unico bene superiore e dunque solo per la libertà vale la pena morire o uccidere. È giusta e sofferta la riflessione sulla “tristezza della condizione umana sancita dall’utopia della ‘pace perpetua’ e dal proprio periodico, quanto inevitabile, sconfinamento nella disumanità.” (Adornato, ibid.). Secondo questo pensiero, non ci sarebbe differenza tra i bombardamenti di Dresda del febbraio 1945 e quelli a Gaza oggi. A parte che esiste un’ampia letteratura di cronache, saggi, romanzi e film sulle atrocità di quei bombardamenti, a mio avviso questo confronto non regge, per almeno due motivi: il primo è che nel caso della Germania nazista si trattava di portare alla resa un esercito invasore di circa 12 milioni di soldati; mentre a Gaza il conclamato obiettivo di Israele è quello di uccidere o catturare poche migliaia di combattenti; il secondo è la distanza tra Hamas e il popolo palestinese, quello della Cisgiordania, ma anche gran parte di quello di Gaza, usato come scudo umano di massa. Quanto alla affermazione del governo di Netanyahu di bombardare sistematicamente Gaza per distruggere Hamas e dunque per salvare la propria esistenza, francamente mi sembra esagerato pensarlo, viste quantità e qualità delle forze in campo: Israele non può scomparire e Hamas continuerà ad esistere anche se in altre forme; potrà essere debellato solo con una concordata azione di tutti gli stati, come è stato per l’Isis. All’opposto io penso che più questa guerra diventerà lunga e cruenta, tanto più Israele rischierà di trovarsi contro non bande di terroristi armati, ma interi paesi del Medioriente, Iran in testa. Questo è il vero fine della guerra di Hamas e in tal caso sarebbero guai seri.


In conclusione, escludendo le frange estreme di destra e di sinistra, il pensiero conservatore e quello progressista affrontano in modo diverso e conflittuale la tragedia della guerra in Palestina. Entrambi condannano Hamas e si schierano per il diritto di Israele a difendersi. I conservatori, anche se non tutti a favore di Netanyahu, sacrificano la coerenza per il rispetto dell’umano in nome del diritto di Israele a scatenare azioni militari bombardando Gaza con enormi “danni collaterali” (orribile definizione della morte di migliaia di innocenti). I progressisti invece rispettano sino in fondo il diritto alla vita, anche quando gli atti di terrorismo contro civili inermi oltrepassano i limiti di qualunque gesto cruento di guerra; dunque, accettano la difesa, non la vendetta né la rappresaglia. Per gli uni non ci può essere mediazione, la guerra, in Palestina, come in Ucraina, è un mezzo doloroso ma necessario per ottenere giustizia; per gli altri è proprio la mediazione il mezzo per raggiungere la pace, anche se difficile o utopica. In queste settimane, in molte parti del mondo, i movimenti progressisti hanno manifestato per la pace e in difesa del diritto del popolo palestinese ad esistere accanto a quello israeliano. Purtroppo, però, secondo una prassi diffusa nella destra italiana, si prendono ad esempio modeste manifestazioni con parole d’ordine squinternate e qualche corteo turbolento di giovani antagonisti per accusare l’intero pensiero progressista di essere incoerente e fazioso, se non razzista (“incoerenza sospetta”. Adornato, ibid.). Chissà perché solo al popolo di sinistra si chiede l’arduo compito di testimoniare nelle piazze in favore delle vittime civili dell’Ucraina, contro i genocidi in Cecenia o in Siria, i gulag cinesi, le stragi nei paesi africani, in quelli orientali o in quelli più remoti del mondo. Se poi questo popolo lo fa solo nel momento in cui il frastuono delle bombe viene amplificato e diffuso dalla sarabanda dei media e dei social, viene chiamata logica partigiana dei “due pesi e due misure”, mentre vengono assolti coloro che si allineano al cinismo di chi tifa per la guerra.

