
Uno dei problemi più inattesi e sgradevoli che oggi preoccupa me – e chi come me si trova in età avanzata – è capire il destino dei libri che riempiono le librerie. A casa mia sono tanti, solo di Architettura circa duemila tra libri e riviste, ma almeno altrettanti insieme a mia moglie, tra Arte, Storia, Letteratura classica e Romanzi contemporanei. Un numero non inferiore sono quelli analogamente conservati nelle case di amici o colleghi, soprattutto quando studiosi, insegnanti, giornalisti, ecc… Probabilmente, salvo una selezione molto ristretta da lasciare a figli, amici o studiosi, finiranno al macero. Insieme al giornale cartaceo è finita l’epoca del libro stampato. È uno dei sintomi del nuovo mondo nato dalla rivoluzione digitale, una nuova forma di conoscenza. Sintetizzando con una certa approssimazione potremmo dire che con il nuovo millennio si è modificato il rapporto spazio/tempo nella formazione cognitiva dell’individuo. Laddove per spazio intendiamo la collocazione mentale degli “spazi” del sapere, e per “tempo” il minutaggio dedicato alla acquisizione di conoscenze.



La scuola dell’obbligo e quella superiore fornivano, e forniscono ancora oggi, una preparazione trasversale, con una finalità che deve essere “formativa” più che “informativa”. Ma fino ad una trentina di anni fa la formazione della conoscenza post-scolastica, sia di chi intraprendeva gli studi superiori o universitari e quindi procedeva con metodo sui libri, sia di tutti coloro che leggevano per informazione, curiosità o piacere, avveniva per campi selezionati e distinti. Era rara la prassi di una formazione multidisciplinare, o tuttologa, come si dice oggi. Anche la struttura del giornale quotidiano di informazione era fondata su questo criterio: cronaca e attualità per tutti e approfondimenti specifici in quella che veniva chiamata “terza pagina”, oppure nei periodici settimanali e mensili. I “tempi” del sapere, ovvero quelli dedicati allo studio, alle letture o semplicemente alla informazione e curiosità erano per il lavoro intellettuale più intensi e lunghi, per le altre attività più saltuari e brevi, ma sempre orientati a “spazi mentali”, ovvero a interessi particolari. Questa diversa disponibilità rischiava di determinare una diseguaglianza non solo culturale, ma anche di condizione sociale.

Oggi tutto questo è cambiato. La rivoluzione digitale con l’enorme diffusione della automazione ha fatto sparire il contesto sociale del Novecento fondato sul lavoro in fabbrica e con esso non solo ha messo in discussione il concetto di lotta di classe, ma, ha aperto un nuovo scenario della conoscenza e del concetto stesso di cultura. Così la diversa strutturazione spazio/temporale nella acquisizione del sapere per via digitale è diventata meno differenziata: l’intellettuale ha bisogno di minor tempo per approfondire la propria conoscenza e, anzi, amplia in senso trasversale la propria formazione e tutti hanno più tempo per unire alla propria esperienza empirica letture e nuove conoscenze. Ma quale è lo strumento ideale per sconfinare in un sapere più esteso? Ovviamente internet, il mondo del web. Ma è, questo, vero “sapere”? E cosa ne consegue?

Wikipedia è ancora un canale di informazione sufficientemente verificato, ma altri siti web simili lo sono meno, come le tante pagine informative gestite come strumento di promozione di prodotti commerciali, per attirare consumatori rispondendo a specifiche esigenze materiali, del tempo libero o della salute, per non parlare delle tante applicazioni o social media ormai comuni in quasi tutto il mondo. L’avanzato livello di gestione e indirizzo delle informazioni dei diversi provider web, ora attraverso parole chiave o domande, e ormai anche con l’impiego della Intelligenza Artificiale, mettono insieme notizie vere e false, utili e dannose, indipendenti e di parte, tra loro difficilmente distinguibili e selezionabili. Ma non è solo questo il problema, lo è maggiormente il rapporto che l’individuo di ogni estrazione culturale o sociale stabilisce con questo strumento.

La popolazione mondiale ha superato gli 8 miliardi; gli ultimi dati di GSMA Intelligence, che è la fonte principale di dati e analisi per il settore della telefonia mobile, rivelano che quasi il 70% della popolazione totale mondiale utilizza dispositivi digitali, vale a dire oltre i tre quarti della popolazione mondiale, circa 6 miliardi di persone. Tra questi, la stragrande maggioranza sono le persone attive sui social media, che hanno superato i 5 miliardi. Circa 2 ore e 23 minuti al giorno di media è il tempo che gli utenti trascorrono sulle piattaforme per connettersi con gli altri, intrattenersi e cercare informazioni.

Anche escludendo la maggior parte degli accessi alla rete per social network, chat, messaggistica, acquisti, videogiochi, ecc… la consultazione di informazioni, giornali, periodici, notizie varie, ovvero tutto ciò che un tempo era affidato alla carta stampata, come documentato dagli accessi ai motori di ricerca (Google, Microsoft Bing, ecc…) è valutabile nella misura dell’80% degli utenti, calcolato mensilmente. Ovvero 4 persone su 5 che hanno collegamento alla rete web mensilmente accedono anche a canali di informazione e conoscenza.

Cambia il concetto stesso di conoscenza: il rapporto “spazio/tempo”, ovvero tra il campo di interesse e il tempo dedicato si modifica in favore del primo: molti i campi di conoscenza e minimo il tempo dedicato. Si legge velocemente, talvolta non si legge ma si guarda o si ascolta: stories o reels nei social, brevi video o podcast nei giornali. Se ci pensiamo bene, anche quando la lettura è approfondita nei campi del sapere o in quelli dell’intrattenimento letterario, sempre più tende a preferire la scrittura digitale sui kindle o simili, perché leggeri, mobili, perché rubano tempo alle pagine scritte, perché semplificano i tempi di lettura. La conoscenza diventa informazione e la complessità semplificazione nei casi migliori, presunzione del sapere in quelli peggiori. Ma tutto questo che ricadute ha sui grandi numeri? Che rischi apre quando la quantità e il peso delle informazioni si concentrano su occasioni o problemi specifici diventando strumento di pressione, ad esempio nei conflitti elettorali?

Da una parte la discriminante di cui abbiamo parlato all’inizio, che separava due mondi, due modi di lavorare e di recepire conoscenza, quello della applicazione intellettuale e quello di tutte le altre attività, ci rende un po’ più uguali o, almeno, mette a disposizione gli stessi strumenti per tutti; ma dall’altra, se non c’è la capacità di selezionare, di interpretare, di tenere alto il livello di attenzione e discernimento, rischia di ridursi il livello medio di consapevolezza. Mentre si ridimensionano i privilegi della “élite intellettuale”, si conforma una “élite tecnocratica”, stimolata proprio dal mondo digitale, che, in tutti i campi – tecnico, scientifico, artistico, creativo in genere – sollecita (e a volte finanzia) studi, ricerche e approfondimenti, nonché collegamenti diretti con il potere. Anzi spesso è proprio il potere ad impadronirsi di questo sapere. Da come stanno andando le cose oggi in Italia e nel mondo, questa condizione non promette nulla di buono.

