piccola autobiografia in 3 puntate. Capitolo secondo

Ma cosa significava cinquanta anni fa dichiararsi “comunista”? Cosa significava per molti degli studenti che in quei mesi scendevano in piazza? Se consideriamo che stiamo parlando di eventi accaduti a poco più di vent’anni dalla fine del fascismo, la ribellione emersa dalle lotte studentesche, almeno in Italia, era come una scarica di energia esplosa da un tappo che aveva imprigionato le libertà individuali per tanti anni. Cantavamo contro la stessa borghesia che ci aveva allevato sino ad allora, esprimendoci con parole anche violente:
Voi gente per bene che pace cercate – la pace per far quello che voi volete – ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra – vogliamo vedervi finir sotto terra – ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato – nessuno più al mondo deve essere sfruttato
(da Contessa, di Paolo Pietrangeli)
In realtà mi stavo costruendo una contraddittoria cultura politica, da una parte “ortodossa”, con faticose (e un po’ noiose) letture di Engels, Marx e anche Marcuse, dall’altra “alternativa”, divertendomi alle provocazioni che i nostri compagni, chiamati “uccelli”, mettevano in atto, disturbando le assemblee che si tenevano in facoltà od occupando simbolicamente la cupola di Sant’Ivo alla Sapienza, sede storica dell’università di Roma. Emergevano poche certezze e molti dubbi. Una prima certezza era di rifiutare che la scuola e l’università fossero portatrici di un sapere tradizionale imposto da insegnanti impermeabili alle nuove istanze di libertà culturale e progresso sociale, selezionando gli studenti così come le fabbriche sfruttavano gli operai. Citando Don Milani, urlavamo che “non c’era nulla che fosse più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”. Un’altra certezza era quella di combattere un integralismo cattolico che, oltre alla pratica religiosa, vedeva nella famiglia a livello individuale e nella guida democristiana a livello politico i suoi unici riferimenti. Una terza era di rifiutare l’ebbrezza del “miracolo economico”, che nascondeva i problemi reali di un paese uscito malconcio dalla guerra.
Bastava questo per essere “comunisti”? No di certo. E infatti i molti dubbi partivano dal senso di colpa di non essere parte di quella classe operaia che iniziava proprio in quei mesi a manifestare la propria rabbia sociale. Mi colpì molto, allora, l’interpretazione pasoliniana del conflitto tra studente e poliziotto. Non la condivisi, ma mi fece stare male. Altri dubbi riguardavano non solo il rapporto con il Partito Comunista Italiano che aveva sempre appoggiato la ribellione studentesca, ma soprattutto la realtà internazionale del comunismo, con l’avversione per la dittatura sovietica da una parte e la celebrazione del castrismo come guida per una rivoluzione nei paesi dell’America Latina; concetto eroicamente simboleggiato dalla celebre foto-manifesto di Che Guevara appesa in camera. Solo pochi mesi dopo quella mattinata di Valle Giulia, con la rivolta antisovietica in Cecoslovacchia avrei capito che il mio – il nostro – “comunismo” era solo un principio ideale calato in una realtà politica complessa e non facilmente decifrabile. E lo avrei capito ancora meglio qualche anno più tardi, quando anche il PCI di Enrico Berlinguer prese le distanze dal comunismo sovietico assumendo una propria autonoma caratterizzazione.

Unico dato certo è che in quel 68 ho smesso di definirmi credente cattolico. Frequentando un circolo di discussione e attività politica nella periferia romana al quartiere Tuscolano, un giorno capitai nei locali di una parrocchia, richiamato dalla notorietà di un prete molto al di fuori degli schemi e molto impegnato nel sociale. Si discuteva dei problemi del quartiere. Al termine della discussione il prete, mi sembra si chiamasse Don Antonio, chiese chi volesse confessarsi. Io ero nel pieno della crisi religiosa e mi sembrava l’occasione per verificarla. Seduti uno di fronte all’altro, più che una confessione fu una semplice e amichevole conversazione. Io tirai fuori il mio grande dubbio in merito alla fede, poi raccontai come la pratica cattolica, e cioè la frequenza alla messa domenicale e ai sacramenti per me fosse una consuetudine familiare più che una vera convinzione. Il prete mi ascoltò attentamente, ma in silenzio. Io continuai esprimendo la convinzione che i principi del Vangelo che riguardavano il rispetto per il prossimo, l’eguaglianza e la solidarietà sociale, fossero comunque alla base delle mie idee. Approfondimmo insieme l’argomento, poi don Antonio sorridendo mi disse parole che ricorderò sempre: “Questi principi li puoi applicare nella fede come fuori della fede, ma sono quelli giusti. Questo – e solo questo – è l’importante, non derogare mai”. Mi abbracciò e mi salutò. Fu l’ultima mia confessione. (continua)