La maledizione dell’”occhio per occhio” (Fauda, serie TV)

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Sulle pagine di questo blog ho parlato spesso di serie televisive, convinto che, se di qualità, siano cinema nel senso pieno della parola. Quelle di produzione israeliana hanno avuto molto successo, sin dalle due più celebri Prisoners of War, da cui è nato il remake statunitense Homeland, e Be Tipul rieditato in USA come In Treatment da Fox e anche in Italia da Wildside. Nel 2015 è uscita su Netflix la prima stagione della serie israeliana Fauda (“caos” in arabo) e nel 2018 la seconda. Bene sceneggiata, con una ottima regia e validi attori, Fauda, che appartiene al genere “thriller di spionaggio” merita alcune considerazioni riguardo ai suoi contenuti.

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Va detto subito che, trattando del conflitto tra Israele e Palestina e in particolare di gruppi armati che si combattono ferocemente, il punto di vista è quello israeliano, ovvero del popolo ebraico che si difende dagli attacchi palestinesi. Ma gli autori della sceneggiatura (tra cui Lior Raz, che è stato realmente nelle forze speciali israeliane ed è anche il protagonista della serie) ci propongono simmetrie di attacco e difesa secondo la logica dell’”occhio per occhio”, che non suscita troppe simpatie nè per l’una nè per l’altra parte.

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Lo scenario schiera da una parte il ministero della difesa israeliano, dall’altra l’autorità nazionale palestinese; sono due entità contrapposte che cercano il dialogo e, per quanto possibile, evitano scontri e violenze. Poi, a livello di “intelligence armata” ci sono da una parte le forze speciali israeliane che controllano il territorio e dall’altra Hamas che ne difende, anche con violenza, l’autonomia; ma anche questi due schieramenti dialogano tra loro ed evitano che le situazioni degenerino. Infine – e su questi è concentrata la storia – si combattono, da parte israeliana, una “unità di difesa” (in ebraico il gruppo Mista’Arvim) composta da una mezza dozzina di infiltrati sotto copertura, che parlano perfettamente l’arabo e che hanno il compito di stroncare ogni gesto terroristico e, da parte palestinese, gruppi autonomi di terroristi collegati alla Jihād internazionale (Al Quaida, Isis, ecc…).

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Siamo in un campo di battaglia in cui diventa molto difficile distinguere tra “bene” e “male”, anzi impossibile riconoscere l’esistenza stessa del “bene”, così come è difficile oggi discernere le ragioni di un popolo che è tornato nella sua terra storica e quelle di chi di quella terra si è sentito espropriato. Ma soprattutto diventa evidente l’assurdità della logica dell’”occhio per occhio” che apre violenze e sofferenze senza fine. E ancor più appare incomprensibile questa violenza quando si richiama a vendette personali in nome di affetti familiari stroncati o di presunte fedi religiose. Nel film solo le donne sembrano cercare pace, consapevoli dell’inutilità di una violenza che distrugge amori e sogni. Tutto questo in Fauda è fiction e, come tale, cinematograficamente amplificato e spettacolarizzato, ma la visione, oltre al coinvolgimento drammatico, restituisce qualche conoscenza in più sulle dinamiche di una guerra senza fine che non può lasciare indifferenti.

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