UNA MOSTRA (QUASI) TRADIZIONALE. La Biennale Architettura 2018, Venezia.

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Sono passati più di tre mesi dalla apertura della Biennale di Architettura 2018, curata da Yvonne Farrel e Shelley McNamara (Grafton Architects). Se ne è parlato e se ne è scritto molto. Io l’ho visitata tardi, solo i primi di settembre, ma ne propongo una illustrazione complessiva, utile per chi ancora non l’abbia visitata (chiude il 25 Novembre).

Dopo il “Reporting from the front” (2016) del cileno Aravena, indirizzato ad una ridefinizione degli orientamenti architettonici in termini sociali ed ambientali, che a sua volta fece seguito alla chiassosa, ma divertente ed innovativa mostra del 2014 di Koolhaas sui “Fundamentals” dell’Architettura, le due curatrici irlandesi ci hanno proposto una mostra di carattere sostanzialmente tradizionale, tematizzata attorno alla parola chiave “Freespace”. E’ stato un messaggio-manifesto di libertà che, sia nella sezione delle Nazioni (Giardini), sia in quella degli inviti personalizzati (Arsenale), ha lasciato ampia libertà agli espositori. Come nelle edizioni precedenti la mostra è stata interpretata in due modi diversi: da una parte attraverso una installazione, dall’altra – la più numerosa – attraverso l’esposizione di progetti.

Ho già avuto modo di scrivere che negli allestimenti la distanza tra Biennale d’Arte e Biennale di Architettura (che si alternano ogni anno) si va progressivamente riducendo, proponendo quest’anno installazioni che stimolano emozioni sospese tra architettura ed arte, soprattutto ai “Giardini”, nella Sezione delle Nazioni. Tra le più riuscite, il Giappone (foto a sinistra) che ha proposto uno spazio bianco tappezzato di splendidi disegni e grafici di vita e realtà urbana; la Svizzera (foto al centro), che ha giocato sul disorientamento spaziale alterando i rapporti di scala tra uomo e spazio della casa; la Gran Bretagna (foto a destra), che ha svuotato il suo padiglione e lo ha trasformato in una isola sommersa da impalcature, con l’invito a salire in copertura dove appare lo spazio libero ed orizzontale della laguna; l’Olanda che ha presentato un ambiente con armadi e sportelli che rivelano punti di osservazione sul rapporto tra i bisogni dell’uomo e la dimensione cibernetica che lo condiziona; infine i Paesi nordici, che, nel bellissimo padiglione di Sverre Fehn hanno fatto “respirare” tre enormi bolle d’aria a significare il contrasto architettura-natura.

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Paesi Nordici

Sempre tra i padiglioni nazionali sono più numerose le interpretazioni del tema con l’esposizioni di disegni e plastici di architettura. La Germania racconta le trasformazioni (realizzate e no) di Berlino dopo la caduta del muro; analogamente il Brasile espone progetti che si oppongono a preesistenti spazi di separazione ed esclusione; sia la Spagna che la Francia tappezzano le pareti con una molteplicità di disegni di architettura, proponendo il caos figurativo come metafora di occupazione di uno spazio libero. Nel Padiglione centrale dei Giardini le due curatrici hanno invitato architetti affermati di diverse età ad esporre le loro opere sul tema-manifesto della mostra, riservandosi però uno spazio per selezionare 16 opere di architettura di pregio, proponendole ad altrettanti architetti come oggetto di osservazione e illustrazione. Nell’idea era una operazione di scambio intellettuale, nei risultati un calderone confuso di plastici e disegni.

Il Padiglione Italia (foto sopra), ormai stabilmente collocato all’Arsenale e affidato quest’anno a Mario Cucinella, merita una specifica considerazione. Personalmente ritengo indovinata la scelta di guardare ai nostri territori e borghi dispersi tra le montagne alpine e appenniniche e meno noti al turismo di massa. Didascalica, ma utile ed efficace, è l’idea espositiva di aprire le pagine di un immaginaria guida dell’”Arcipelago Italia”. La seconda parte della mostra è dedicata ad illustrare alcune sperimentazioni progettuali condotte da gruppi di lavoro costituiti da studi professionali e università per risolvere i problemi di emarginazione, degrado ambientale o danno sismico, subìti da alcuni di questi luoghi. Come sempre in questi casi diventa difficile per l’architetto visitatore astrarsi da un giudizio (inevitabilmente soggettivo) anche sulla qualità e validità dei progetti. Dirò solo – conoscendo bene la situazione dei luoghi – che forse per quanto riguarda l’intervento su Camerino devastata dal terremoto di due anni fa, il carattere sperimentale e monumentale delle proposte non era nella tonalità giusta rispetto alle urgenze della ricostruzione.

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E veniamo agli spazi dell’Arsenale dove la tematizzazione del curatore in genere è più forte. Ma le curatrici di questa edizione vi hanno rinunciato – forse una debolezza, forse un merito – lanciando il loro manifesto “Freespace” e limitandosi ad elencare e numerare gli espositori invitati, ai quali, salvo rare eccezioni, era stato assegnato un “intercolumnio” che doveva lasciare sempre visibile la continuità lineare delle Corderie (oltre trecento metri). Ogni espositore disponeva di un cartello con alcune righe di illustrazione della propria idea di “Freespace”, anticipato dalla motivazione dell’invito firmata dalle curatrici.

Anche qui, come nei padiglioni nazionali, alcuni ricorrono a sintetiche installazioni, altri – e sono la maggioranza – alla esposizione di progetti di architettura. In generale hanno preferito esprimersi attraverso installazioni gli architetti e gli studi più affermati (o anziani): Alvaro Siza (foto a sinistra), che accoglie il visitatore dentro una recinzione e una scultura candide e incompiute; Kazuyo Sejima (al centro) che invita a girare attorno ad un impenetrabile sistema di cilindri diafani, sintesi concettuale di tanti suoi progetti; Toyo Ito (a destra) che propone uno spazio di sosta circondato da vibrazioni luminose; Moneo, che invita a riflettere sulla sua esperienza progettuale della celebre piazza di Murcia; infine Olgiati che nel terminale delle Corderie moltiplica le colonne.

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Installazione di Olgiati

Ci sono poi installazioni in movimento (Proap Global, Riccardo Blumer) e vistose esagerazioni di dubbio gusto (Botta con gli esercizi dei suoi studenti, Alison Brooks e John Wardle con improbabili “archisculture” in legno). Tra i numerosi progetti esposti, una sosta più lunga meritano Diller Scofidio+Renfro (sotto a sinistra) con la loro Scuola di Medicina alla Columbia, magistralmente illustrata attraverso una doppia ripresa video con droni che ne percorrono contemporaneamente lo spazio esterno ed interno; il gruppo cinese DNA Design and Architecture (sotto a destra) che espone progetti di architettura integrati nel paesaggio; le bellissime tavole di Angela Deuber; e, per la sua estrema semplicità, l’asilo nido di Tezuka Architects.

 

Come sempre, dopo una visita alla Biennale di Architettura di Venezia non è facile esprimere un bilancio complessivo, essendoci sempre spunti di rilevo e cadute di tono. Yvonne Farrel e Shelley McNamara hanno scelto una impostazione sostanzialmente tradizionale, che, da una parte restituisce al progetto di architettura la sua responsabilità e dignità rispetto alle trasformazioni del mondo contemporaneo – e certamente oggi, in Italia, come architetti e come uomini di cultura, di questo abbiamo bisogno – dall’altra non suscita eccessive emozioni nel più ampio pubblico dei “non addetti ai lavori”.

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Tavole di Angela Deuber

 

 

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