
In questi ultimi anni ho vissuto due esperienze politiche parallele: da una parte l’iscrizione al Partito Democratico, avvenuta in tarda età dopo una vita di adesione ideologica ed elettorale; dall’altra la partecipazione alle attività di un gruppo civico molto presente a Roma, Tutti per Roma, Roma per Tutti, nato sull’onda del dissenso alla amministrazione comunale Cinquestelle. La prima esperienza si è conclusa in sei anni, dopo avere verificato, a fronte della sincera partecipazione della base iscritta al partito, la mentalità burocratica e formale dei dirigenti e la difficoltà degli amministratori locali nel concretizzare il loro impegno per la città. La seconda esperienza è ancora viva: sia il confronto interno tra i membri, sia l’impegno per la città è sincero e concreto; spesso però mi sono chiesto come debba operare un gruppo civico e quali siano le sue finalità. Una delle questioni aperte è il suo ruolo nel rapporto con il dissenso civico e come questo possa esprimersi in modo “attivo” rispetto alle decisioni del potere.

Il concetto di “partecipazione civica” è alla base delle attività di un gruppo come Tutti per Roma, Roma per tutti (userò la definizione abbreviata TxRxT); riconoscersi nel gruppo e svolgere attività al suo interno impone una convergenza di pensiero. Ma ci sono delle occasioni in cui emergono punti di vista diversi, anche su questioni fondamentali. Una di queste è il concetto di “partecipazione attiva” declinato sul principio che il cittadino, comunque organizzato e associato, ha il diritto di intervenire sulle decisioni non solo politiche ma anche tecniche e specialistiche messe in atto dalla politica che governa il territorio. Secondo questo pensiero la partecipazione dei cittadini al confronto con progetti e iniziative delle amministrazioni pubbliche deve portare ad una sensibile modifica alle decisioni invertendo il punto di vista: la validità della decisione politica si misura proprio dagli effetti che il processo partecipativo ha prodotto in termini di cambiamento. Io non sono d’accordo con questo ragionamento e cercherò di spiegarlo.

Quando la partecipazione cittadina avviene in modo individuale o per piccoli raggruppamenti estemporanei al 90% è in forma NIMBY, ovvero piccoli interessi locali che confliggono con un vastissimo campo di interessi generali e collettivi. Dunque, escludo pre-giudizialmente questo caso, perché non credo all’uno vale uno ed è inevitabile che la partecipazione per arrivare alla interlocuzione con il potere (politico, culturale e scientifico) richieda aggregazioni e mediazioni. Queste possono essere costituite dai partiti politici, ma questi – purtroppo anche a sinistra – raramente hanno svolto questo ruolo, dimostrando di avere come finalità il consenso elettorale e solo raramente il bene comune. Oppure sono i media (giornali, TV, social…) a proporsi come portatori di istanze civiche, ma sappiamo quanto gli strumenti di informazione e comunicazione siano condizionati dalla politica e dal potere economico e spesso addirittura ambigui o falsi. Infine, i gruppi civici, soprattutto nelle grandi città, sembrano i più titolati a svolgere questo ruolo di mediazione con la cittadinanza per aprire spazi reali o virtuali, di piazza o di pensiero, ad una cittadinanza che vuole sapere, capire e incidere sul destino del proprio territorio. Ma come si dovrebbe sviluppare questo impegno civico?

Considero esemplare il percorso seguito dal gruppo TxRxT sul tema dei rifiuti. All’inizio c’è stato il diffuso malessere cittadino nei confronti di una amministrazione totalmente incapace di avviare qualsiasi iniziativa; l’accumulo dei rifiuti nelle strade durante il mandato della amministrazione Raggi ha creato un’onda d’urto esplosa nella piazza del 27 ottobre 2018. Sottolineo: è stata la cittadinanza a porre il tema e TxRxT a recepirlo sui social e a portarlo allo scontro politico. Ma non bastava, dunque il gruppo ha deciso di consultare le competenze tecnico-scientifiche organizzando un grande dibattito al teatro Palladium; e sono stati fatti i primi passi nel campo delle competenze. Poi è andato avanti sfruttando le competenze interne, quelle esterne e soprattutto studiando e approfondendo il tema, ovvero acquisendo le competenze necessarie per rendere il tema popolare e sensibile: così è stato redatto il “Quaderno sui rifiuti”. Cambiata l’amministrazione cittadina e arrivati segnali di cambiamento, il ruolo è cambiato: occorreva appoggiare questi segnali e spingere per trasformarli in atti; sono state ancora chiamate le competenze necessarie per capire come agire sul tema del termovalorizzatore e degli altri impianti di trattamento dei rifiuti (incontro al Teatro Trastevere “6 risposte a 6 quesiti”).

Si parla del valore della “competenza civica” espressa dal basso, ovvero dal vissuto, ma non credo che questa condizione sia sufficiente. Il contradditorio con il potere amministrativo, che spesso muove da un’ampia pressione sui canali social deve essere supportato da dati tecnico-scientifici, ovvero da competenze recepite o acquisite. Solo così si può sfidare la decisione amministrativa scoprendone, se ci sono, i limiti e le lacune. Più difficile – e forse sbagliato – è mobilitarsi per modificare quanto già deciso; in primo luogo, perché un gruppo civico non ha ruolo istituzionale e anche i cosiddetti processi partecipativi attivati prima delle approvazioni definitive di un progetto, si riducono spesso ad un contraddittorio sulle urgenze locali dei cittadini senza una visione generale. In secondo luogo, perché un gruppo civico non possiede, o possiede solo in parte, gli strumenti di conoscenza, a monte e a valle del progetto, che rendano più qualificata e fattibile la proposta alternativa.

Un gruppo civico deve tenersi lontano dalla tentazione di esibire la propria forza come mediatore della cittadinanza, addirittura entrando in competizione con altri gruppi civici. Dovrebbe invece svolgere un compito maieutico, e cioè spiegare, convincere, diffondere, facendo crescere partecipazione e consapevolezza. Su questioni tecnico scientifiche, come un piano rifiuti per una metropoli di tre milioni di abitanti, la manutenzione del verde urbano, il ridisegno della mobilità di Roma, ecc… si può rispondere solo chiamando o acquisendo altrettante competenze, importanti non perché di più alto profilo, ma perché fuori dai condizionamenti degli interessi di parte. Nello stesso modo, credo, dovremmo agire oggi sulla questione più alta che Roma deve affrontare nei prossimi anni per ritrovare la propria identità nel mondo, e cioè sul progetto strategico di riconfigurazione dell’Area archeologica dei Fori e del suo rapporto con la città in quanto “progetto complesso”. Questo non richiede solo alte competenze storiche, archeologiche, urbanistiche e architettoniche ma la capacità di tenere insieme tutte le componenti. La cittadinanza ha il diritto di essere informata, di capire, di conoscere la realtà dei tempi e dei fondi per la realizzazione, di valutare le alternative qualora ci siano; insomma, di crescere ed essere presente, di appassionarsi alla nuova bellezza che la conoscenza può regalare. Ma, soprattutto, ha il diritto di non essere tradita. Questa per me è la “partecipazione attiva”.

