
Un film il cui titolo rimanda ad un importante movimento di architettura del XX secolo attira la curiosità di un architetto. Dunque, non ho esitato ad andare a vedere, appena uscito, The Brutalist, un conclamato film vincitore di premi e candidato all’Oscar. Il film racconta la vita di László Tóth, un architetto ungherese ebreo – non è una storia vera, ma verosimile rispetto ai tempi – che, dopo le persecuzioni naziste e nella situazione di povertà e incertezza del dopoguerra (l’Ungheria entrava nella sfera di influenza del Comunismo sovietico), emigra negli Stati Uniti a Filadelfia. Efficace nelle immagini, montaggio e musica nella prima parte, dunque in linea con il carattere potente, ma al tempo stesso minimalista, dei volumi di questo movimento architettonico, nella seconda parte il film si dilunga in una drammatica e contraddittoria vicenda che porta faticosamente la durata del film a quasi quattro ore. Ma, lasciando il giudizio alla critica specializzata, preferisco sottolineare come questo film induca a riflettere sul rapporto dell’architettura con il contesto storico e culturale del dopoguerra e, più in generale, sul ruolo dell’architetto nei confronti del committente.


Alison e Peter Smithson, Hunstanton School, Norfolk,1949-1959 e Robin Hood Gardens, 1960
Il Brutalismo o, meglio, Neo Brutalismo come lo aveva definito il critico Reyner Banham identificandolo come “movimento” per distinguerlo dal “brutalismo” inteso come aggettivazione di una architettura fondata sul cemento – beton brut – ovvero “brutale”, cioè grezza, ruvida, senza orpelli, si era formato declinando alcuni aspetti teorici e formali del funzionalismo con i nuovi materiali edilizi del Novecento. Costituitosi in Inghilterra con il pensiero e le opere degli architetti Alison e Peter Smithson, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si è poi diffuso negli Stati Uniti, ma anche in Brasile, in Giappone, in Europa ed in Italia, influenzando le opere di molti architetti tra gli anni Cinquanta e Settanta. Il cemento armato cosiddetto “faccia vista” e, in parte, l’acciaio ne erano le materie prime e il minimalismo formale la base teorica (*).



Tre opere di Le Corbusier “brutalista”: Associazione Cotonieri, Ahmedabad,1954; La Tourette, Eveux, 1956; Segretariato a Chandigarh, 1958
Come una lama conficcata in un corpo solido, il Brutalismo nell’immediato dopoguerra feriva la cultura architettonica americana, fondata su un gusto commerciale ancora sospeso tra il neoclassicismo ottocentesco e le novità delle avanguardie europee. Infatti, negli anni Quaranta del secolo scorso, negli Stati Uniti non si era ancora stabilizzato il consenso alla architettura moderna nonostante nomi prestigiosi come Wright, Saarinen e lo stesso Le Corbusier. Un consenso che si sarebbe consolidato solo nei decenni successivi grazie ai maestri immigrati europei (Neutra e Schindler già in America dagli anni Venti, poi Gropius, Mies Van der Rohe, Breuer, ecc…), per esplodere negli anni Sessanta con il successo del brutalismo plastico di Paul Rudolph e di quello materico e geometrico di Louis Kahn. Nel film – quasi una metafora – l’architettura brutalista, per la cupezza del gioco di luci ed ombre, ma anche per la capacità di coniugare il minimalismo con una spazialità aperta e verticale, bene rappresentava da una parte la recente tragedia della guerra, dall’altra la immaginifica speranza di un futuro migliore.



O. Niemeyer, Congresso Nazionale, 1956-60, Brasilia; M. Breuer, Whitney Museum, 1966, New York; L. Bo Bardi, SESC, San Paulo, 1968
Una seconda riflessione riguarda il rapporto dell’architetto con la committenza. Nella prima parte del film, il protagonista incontra una forte difficoltà nel fare accettare al cliente le proprie scelte figurative e spaziali; nella seconda parte, ottenuta l’adesione al progetto con elogi e incoraggiamenti, gli viene imposto di interagire con un altro progettista che chiedeva delle modifiche al progetto. Sono due questioni anche oggi presenti per chi fa questo mestiere: la prima riguarda la distanza tra il linguaggio dell’Architettura e quello della comunicazione, e cioè l’architetto difficilmente viene capito dal cliente attraverso idee tradotte in forma, soprattutto quando configura lo spazio in modo trasgressivo rispetto al gusto corrente. La seconda è che talvolta l’architetto cade nella autoreferenzialità, inseguendo un risultato che appartiene al proprio percorso creativo, come un “artista” che realizza un’opera o una installazione che viene ceduta o mostrata proprio in quanto “opera firmata”, cioè che rappresenta sé stesso. Ma l’architetto, a mio avviso, non è un artista.


P. Rudolph, Art and Architecture Building, Yale, 1958-63; L. Kahn, Salk Institute, 1959-65, La Jolla (San Diego)
Ho già scritto su questo blog che comunque la si voglia considerare, l’architettura è una scienza inesatta che poggia su un tripode malfermo, costituito da tre appoggi non sempre equilibrati: arte, tecnica e umanistica. Tanto più inesatta in quanto si apparenta con una delle scienze più esatte, l’ingegneria, fatta di numeri, formule e calcoli. E il confronto in termini di comunicazione è perdente. Ma ci sono momenti storici in cui la cultura dominante si spezza, aprendo varchi ad uno stravolgimento che invade anche la dimensione sociale e politica. Nel passaggio dal XIX al XX secolo l’architettura moderna, malgrado i suoi numerosi e complessi orientamenti espressivi, ebbe la capacità di affrontare due questioni fondamentali: la formazione e il sociale; da una parte il Bauhaus, dall’altra il tema della casa per tutti. Gli storici ci hanno raccontato come questi due fattori, seppure tra molte difficoltà, fossero stati determinanti per la crescita di una consapevolezza diffusa sui valori della modernità. Il Brutalismo, con la sua “brutale” bellezza ne faceva parte.
(*) per coloro che sono interessati ad approfondire la conoscenza del Brutalismo o Neo brutalismo architettonico, consiglio:
per le immagini: Atlas of Brutalist Architetture. Phaidon Editors, London, 2020;
per le teorie e i progetti: Anna Rita Emili, Puro e Semplice, Edizioni Kappa, Roma, 2008; Anna Rita Emili, Architettura Estrema, il Neobrutalismo alla prova della contemporaneità, Quodlibet, Macerata, 2011.

