(Architetture a confronto)
Caduta la fiducia nel progresso e nella tecnologia, il progetto di architettura e di trasformazione urbana ha perso i contenuti eroici della modernità, che lo avevano da una parte caricato di valore tecnico e scientifico, dall’altra responsabilizzato sul piano sociale e politico. Progettare e costruire oggi significa confrontarsi con problemi che, sino a pochi decenni fa, non sembrava dovessero appartenere alla disciplina: il risparmio energetico, il consumo di suolo, il riciclo dei materiali, l’impatto ambientale. Per di più, spesso, questi problemi, al di la della loro ragione, oggi sono esasperati per finalità non sempre chiare: politica, lobby, interessi corporativi e istanze di associazioni di base.
Si potrebbe pensare che tutto questo comporti un abbattimento dell’invenzione architettonica. Ma non è così dal momento che in Italia, come si sa, esistono oggi circa 150.000 architetti, tra cui molti giovani. Al di la del problema sociale e occupazionale si è creata una condizione paradossale: tanto più si indebolisce l’autonomia dell’Architettura come disciplina e tanto più la figuratività architettonica assume una pluralità di linguaggi, disperdendosi nella molteplicità di espressioni architettoniche difficilmente inscrivibili in percorsi progettuali coerenti e stabili.
Come sosteneva Cesare Brandi(1), l’accostamento dell’architettura alla semiologia può avere valore ragionando su due livelli. Il primo è che le forme architettoniche esprimono con la loro stessa presenza – per il fatto, cioè, di esistere come realtà fisiche – bisogni individuali o collettivi dell’uomo, che si concretizzano in destinazioni d’uso, quindi significano questi usi. Il secondo livello è che un’opera di architettura nel suo prendere forma non segue solo principi tecnici, ma accosta una serie di elementi procedendo per relazioni sintattiche dipendenti, coordinate o autonome, sino a configurare una condizione di insieme, un oggetto significato simile a quella di una lingua, quindi un testo. E proprio da questo punto di vista è possibile interpretare l’architettura come linguaggio, o meglio, cogliere le analogie possibili tra modi di costruire il progetto e modi di costruire un linguaggio.
Ma ci si domanda: è ancora possibile nella Babele dei linguaggi architettonici contemporanei individuare un processo di costruzione di un testo architettonico che da una parte corrisponda alla realizzazione di specifiche funzioni, ma dall’altra sia costruito con passaggi logici che aggregano elementi architettonici come segni di un linguaggio? Ed è possibile che le diverse modalità di costruzione di questo linguaggio possano essere decifrate come conflitti del pensiero che ha animato il difficile transito da una modernità eroica attraversata da due grandi guerre, ad una dimensione contemporanea sospesa tra rivoluzione tecnologica, disastri ambientali e terrorismi?
La prima metà del XX secolo, la cosiddetta “Stagione del Moderno” era stata caratterizzata ad un pluralismo di linguaggi architettonici che, seppure con qualche approssimazione, è possibile ricondurre da una parte al razionalismo di ispirazione Bauhaus fondato sui presupposti figurativi del cubismo e rafforzato da convincimenti ideologici e sociali, ma dall’altra ad una sorta di ribellione a questa rigidità in nome di un individualismo occidentale che si dispiegava nelle libertà espressive delle forme organiche. In realtà erano due atteggiamenti bene individuati da Adolf Behne(2) come aspetti complementari dell’Architettura funzionalista: è das neue Sachlichkeit, la nuova oggettività che affida alla natura il compito di dare forma all’architettura adattandola ai bisogni dell’uomo, secondo l’aforisma “una casa dovrebbe nascere spontaneamente dal suolo così come una pianta”.
A partire dalla seconda metà del secolo, completata e poi esaurita l’energia creativa dei maestri del Movimento Moderno, si avviò in tutto il mondo occidentale una stagione di profonda revisione della figuratività architettonica, che passò attraverso movimenti/evento, come il Neobrutalismo (anni ‘50 e ‘60), l’Architettura radicale (’60-‘70), la Tendenza e il Neostoricismo postmoderno (‘70-’80), sino al Decostruttivismo(3) (’80-’90), che, in sintonia con il fenomeno delle nuove forme urbane dominate dallo sprawl e nel clima generale della caduta del muro di Berlino, rappresentò il primo vero momento di messa in discussione dei fondamenti dell’Architettura moderna. Come è stato sempre possibile raggiungere l’unità del progetto attraverso una poetica dell’ordine e della gerarchia che combinava elementi lessicali in com-posizioni coordinate e dipendenti, quindi ipotattiche, ora prendeva corpo il procedimento inverso, ovvero la negazione di questa unità attraverso una poetica delle differenze e delle compresenze che applicava com-posizioni accostate e autonome, quindi paratattiche. Un linguaggio disarticolato, libero da vincoli di ordine geometrico, privo di relazioni strette con il luogo o la storia, apparentemente sconnesso, costruttivamente contraddittorio.
Era questo il linguaggio dell’architettura del nuovo secolo? Cerchiamo di capirlo prendendo in esame e confrontando due opere di architettura del secolo scorso, al tempo stesso simili, per destinazione d’uso, dimensione, elementi costruttivi e materiali, e diverse per le modalità sintattiche di composizione delle parti, quindi per linguaggio architettonico.
Anni Sessanta: Berlino, Neue Nationale Galerie di Mies van der Rohe. Anni Novanta: Rotterdam, Kunsthal di Rem Koolhaas. Trent’anni separano due architetture espositive realizzate da maestri del nostro tempo, nel cuore dell’Europa, considerate il frutto di una maturità di pensiero, ma anche di una consapevole carica trasgressiva. Per Mies il “ritorno in Germania” dopo la caduta del Nazismo rappresentava l’occasione per mettere a frutto la straordinaria esperienza costruttiva maturata in America restituendola alla sua città e alla sua cultura; per Koolhaas l’opera realizzata a Rotterdam è la definitiva consacrazione internazionale dopo la sua formazione radicale e gli esperimenti compositivi avviati con la casa Dall’Ava di Parigi.
Il dato di partenza è lo stesso: gli edifici dovevano essere costruiti su un terreno che scendeva dalla quota stradale di circa 4-5 metri; l’interrato doveva essere parte integrante della funzionalità e della capienza dello spazio espositivo. Mies van der Rohe non muove il suolo, ma lo scava e lo richiude. I dislivelli esterni entrano nella geometria del progetto come scale di raccordo, pavimentate con la stessa pietra, e i muri di sostegno emergono appena, rinforzando l’effetto dei due blocchi quadrati affondati nel terreno. Anche il patio verde che si apre alla quota più bassa illuminando il sotterraneo è parte funzionale del museo ospitando sculture. Ma soprattutto è completamente recintato da un muro alto che riprende la quota del grande sagrato-basamento, nuovo suolo artificiale da cui spicca l’assoluta purezza tettonica della grande copertura. Koolhaas muove il suolo, assumendolo nel progetto. Prende il marciapiede stradale e lo spinge dentro l’edificio, mentre il nuovo piano di imposta della quota 0,00 rimane sollevato, scollegato, non più suolo ma solaio. Il raccordo inclinato del pendio verde si contrappone ai piani inclinati delle rampe interne che proseguono il percorso del marciapiede urbano. Ma questo flusso urbano verso l’interno non è continuo, le rampe non assumono mai la forma circolare, tutto è spezzato, spigoloso, sincopato. L’edificio appare come incassato nel terreno, comunicandovi solo attraverso gli esiti finali delle rampe. Fa eccezione la sala della caffetteria che si deposita trasparente nella zona esterna più bassa pavimentata.
Esaminiamo ora come i due architetti sviluppano l’idea di “muro”. Per Mies tracciare il muro significa innanzi tutto prendere possesso del suolo: è l’idea di recinto, ma anche un’idea di forza e di stabilità; è un recinto di pietra, che segnala sempre il suo spessore, affonda nel terreno e, abbiamo già detto, corrisponde alla geometria fondativa del progetto. Nel progetto di Koolhaas quel muro pesante che nasce dal suolo sembra concentrarsi interamente nella grande torre piatta che da terra esce segnalandosi alla città. Ma è un “muro finto”, trasparente, tradito dalla evidenza della carpenteria in acciaio che lo sostiene e dalla fragilità della lamiera che lo riveste. Come in altre opere del maestro olandese le superfici orizzontali e oblique prevalgono su quelle verticali. La stessa rampa, tracciata con forza dentro la pianta quadrata è sostenuta da un gioco di pilastri, aperta o delimitata da pareti vetrate, mai sostenuta da un piano verticale.
Il problema della struttura in elevazione ci introduce al tema del “telaio”. La colonna d’acciaio di Mies è stata definita una colonna classica-moderna. In realtà manca la tripartizione dell’ordine: non c’è basamento, non c’è capitello, anzi l’uno e l’altro sono negati esplicitamente. Eppure il sistema trilitico elementare che il maestro tedesco assume come paradigma di un’idea costruttiva, la proporzione e la leggera svasatura del grande pilastro, la metrica e lo spessore della travatura di copertura, tutto riporta agli equilibri assoluti dell’ordine classico. Più complesso è il telaio nella Kunsthal: mai visibile nella sua autonomia e completezza, sempre associato ad altre membrature, spesso indipendente da allineamenti, talvolta contraddittorio rispetto alle regole del costruire, il telaio strutturale di Koolhaas non ci trasmette equilibrio, ma solida incertezza, addirittura camuffato per “vestirsi” da albero al piano interrato, quando indossa la stessa corteccia del bosco circostante!
Ma come viene risolta la “copertura” dei due edifici? La copertura della Neue Nationale Galerie si dispone a coprire lo spazio architettonico rimanendo formalmente autonoma e conclusa, sebbene collegata agli altri elementi della composizione da ragioni metriche e costruttive, tanto che il montaggio avvenne a terra, e poi la copertura, tutta intera, una lastra rigida e finita di oltre 64 metri di lato, venne sollevata da grandi gru e posizionata sugli otto pilastri. Nella Kunsthal invece la copertura riassume le parti dell’edificio, anzi in qualche modo le rinforza, concorrendo a ricostruire i volumi prima “fatti a pezzi”. Koolhaas sembra giocare con i riferimenti, accettandoli e smentendoli: come il terrazzo-giardino proposto a conclusione della rampa interna, ma privo di motivazioni funzionali; o come la modanatura grigio scura, proprio come quella della Neue Nationale Galerie, che definisce lo spessore della copertura quando sul fronte principale aggetta “miesianamente” rispetto alla parete vetrata che chiude l’ingresso, subito smentita da una imprevedibile trave parapetto arancione, molto più vistosa.
Vediamo infine la pelle dello spazio architettonico, ovvero l’”involucro” che lo richiude. Per Mies la chiusura non c’è. Una vetrata a tutta altezza, arretrata rispetto al filo della copertura, chiude lo spazio atmosferico, ma non quello architettonico. La vera chiusura, semmai, è la proiezione a terra della copertura. Da dentro si percepisce a 360 gradi la città in tutta la sua profondità e orizzontalità. Per Koolhaas l’involucro è distinto dalle altre membrature – anche qui non mancano trasparenze e sfondamenti visivi – ma niente affatto continuo. La stessa unità geometrica dei volumi ne risulta smentita: lo spigolo non è mai trattato simmetricamente da una parte e dall’altra, i materiali perdono concretezza e ragione costruttiva, si sfaldano, si smaterializzano. Qui sembra tutto terribilmente sciatto, troppo sciatto per essere “progettato”. E infatti è la metafora della città che non si progetta, ovvero che si progetta da sola, fatta di cose pesanti e leggere, stabili e provvisorie. Mentre Mies incornicia Berlino sotto la linea netta della copertura, Koolhaas disegna Rotterdam, come un graffito, sull’involucro esterno della Kunsthal: pareti in cemento, rivestimenti in pietra, lamiere grecate, vetrate… c’è spazio per tutto nella sua città generica(4)!
Come abbiamo già anticipato, Per Mies il procedimento è “compositivo”, cioè mette insieme gli elementi architettonici secondo relazioni e gerarchie. Le scienze esatte, come la matematica e la geometria, sono un valido strumento per progettare. Per Koolhaas il procedimento è “scompositivo”, ovvero raduna sotto forma di elenco gli elementi dell’architettura aggregandoli senza rapporti di dipendenza. Paradossalmente gli elementi possono essere gli stessi (e in parte lo sono), ma diversissime sono le tecniche associative di questi elementi. Mies ricerca nel progetto identità e unità anche nella autonomia delle parti, che anzi appaiono come altrettante piccole unità progettuali. Koolhaas pratica la molteplicità e la complessità. Non c’è identità ma contaminazione; alla autonomia delle parti preferisce l’accumulo. Mies infine ricerca la coerenza ed effettua scelte decise ed esatte. Rifiuta il superfluo e crede nel dettaglio. La sua architettura pratica l’ “o-o”. Koolhaas rifiuta la coerenza, è irriverente e blasfemo nei confronti del contesto e del dettaglio. È architettura del dubbio che pratica l’ “e-e”.
Questo confronto ci trasmette un forte disorientamento: qui non sono di fronte due linguaggi, ma il modo stesso di intendere il progetto architettonico nella dimensione contemporanea. Da molte parti si dice che la “stagione della modernità” sia finita in tanti campi e anche in quello dell’architettura. Secondo questo pensiero, da una parte la tecnologia si è dissociata dall’ambiente creando insanabili conflitti, dall’altra la nuova rivoluzione industriale nata dall’invenzione e dalla diffusione dell’immateriale, nel lavoro, nei media, nella cultura figurativa, e persino in letteratura dove anche la carta è stata sostituita dal digitale, renderebbe ingestibile ogni concretezza materiale e quindi il progetto. L’architetto sarebbe allora solo un recettore di stimoli che tradurrebbe in un disegno specialistico. Ma proviamo a vedere le cose in un’altra prospettiva, guardando più a fondo dentro il secolo appena finito, per cercare nuove radici. Possiamo allora rintracciare un percorso della modernità più sofferto nel quale la ricerca della ragione e dell’ordine si confronta con gli avvenimenti della storia – grandi e piccoli, di pace come di guerra – e ne trae nuova ricchezza. È come se esistesse un testo scritto condiviso da tutti, ma da tutti liberamente postillato. Sarebbe impossibile emendarlo o riscriverlo, certamente utile leggerlo così, liberamente, come e dove si crede più opportuno.
Così è, forse, l’architettura di oggi: un palinsesto aperto che segue una traccia sicura. Non serve pensare a un nuovo “corpo disciplinare”, ma imparare a guardare i diversi “corpi” che il XX secolo ci ha lasciato.
Note
(1) In Struttura e Architettura, Einaudi, Torino 1967, pp 35-38, nella quali viene sviluppata una analisi semiologica dell’Architettura
(2) A. Behne, Der moderne Zweckbau, 1923
(3) Nel 1988 Philip Johnson aveva curato al MoMA di New York una mostra sulla Architettura Decostruttivista, invitando Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Bernard Tschumi e il gruppo Coop Himmelb(l)au. Quasi tutti gli architetti oggi più affermati. Cfr il catalogo: Deconstructivist Architecture, exhibition catalog. Introduction by P. Johnson, essay by M. Wigley, Museum of Modern Art, New York 1988
(4) La “città generica” nel pensiero di rem Koolhaas è pura intenzione; se c’è caos, è caos ideato; se è brutta, è di una bruttezza progettata; se è assurda, è di una assurdità voluta.