Baronie carriere e sotterfugi

++ EMENDAMENTO SEVERINO, RESPONSABILITA' TOGHE INDIRETTA ++

Per chi ha vissuto gran parte della propria vita dentro l’Università è triste ed umiliante leggere quanto è accaduto nel settore concorsuale di Diritto Tributario. Ma colpisce anche l’immediata risposta di coloro che direttamente o indirettamente hanno sempre osteggiato l’università e la ricerca, pronti a gettare fango sulle istituzioni e a promuovere l’”uomo qualunque” come alternativa alla competenza.

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La congrega dei professori ordinari che da Firenze ha gestito l’abilitazione nazionale del proprio settore, mercanteggiando su vincitori e vinti, ha applicato un sistema corruttivo balordo che, seppure in modo meno esplicito, è perdurato per molti anni attraverso l’elezione concertata dei commissari. Sarebbe ipocrita negarlo. Questo sistema ha condizionato l’esito dei concorsi per la copertura dei posti messi a concorso (una volta si diceva “cattedre”). Posti allora numericamente definiti per ogni sede universitaria. Mi sembra, però, la prima volta che questo accade dopo la modifica del sistema concorsuale (Legge 240/12/2010), e cioè per le Abilitazioni Scientifiche Nazionali (ASN), che sono a “numero aperto”, non conferiscono un ruolo, ma solo il presupposto per concorrere ad un successivo posto di ruolo. Inoltre i commissari, dopo una selezione per titoli, ora vengono estratti a sorte. Difficile affermare che con le ASN non ci siano state valutazioni di favore, azzardate o quanto meno superficiali. Ma se errori o favoritismi ci sono stati – e ci sono stati, con ricorsi anche vinti – questo attiene alle responsabilità scientifiche ed etiche dei commissari.

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Ma perché quanto accaduto in passato accade anche oggi? Certamente per una propensione allo “strapotere” di alcuni professori ordinari, per alcune complicità parentali o per scambio di favori. Ma, considerando anche la scarsa consistenza del “potere universitario”, ahimè generalmente speso per il potenziamento della propria area disciplinare e per bisticci in Facoltà su cariche o fondi di ricerca, sarebbe fortemente riduttivo fermarsi qui. E dunque, perché un professore universitario al massimo della carriera, magari impeccabile sul piano scientifico e didattico e forse anche morale, cade così in basso da alterare la valutazione sul merito? Per rispondere occorre conoscere la condizione della Università Italiana, ma con una premessa: nonostante non compaiano ai primi posti a livello internazionale, gli atenei italiani producono laureati e ricercatori apprezzati in tutto il mondo. Lo confermano non solo i successi dei nostri giovani all’estero ma anche gli incontri/confronti negli “Erasmus” e nelle altre occasioni di scambi, seminari e convegni internazionali.

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L’Università Italiana negli ultimi venti anni sta progressivamente perdendo consistenza finanziaria e numerica. Diminuiscono i fondi ministeriali di finanziamento ordinario agli atenei, i fondi di ricerca, le borse di dottorato e gli assegni di ricerca. Tutto questo è iniziato proprio mentre partiva una riforma dei corsi di laurea, con la suddivisione del triennio di laurea e del successivo biennio magistrale, che si sarebbe dimostrata inadeguata al mercato del lavoro italiano e alla progressiva crescita della disoccupazione giovanile. Il paradosso è stato che negli stessi anni per ragioni legate a lobby economiche e politiche, si moltiplicavano in tutta Italia gli atenei e i corsi di laurea. “Decentramento territoriale”, si diceva, e invece fu una inutile dispersione! Con la crisi economica sono precipitati anche i cofinanziamenti dei privati, dei consorzi universitari locali e delle convenzioni pubbliche e/o private. Ma soprattutto negli ultimi venti anni sono stati avviati durissimi tagli al personale docente e non docente. Il blocco del turn-over, che all’avvio sembrava un ragionevole risparmio della spesa pubblica e un salutare freno alla proliferazione degli insegnamenti, negli ultimi anni ha segnato il collasso degli stessi corsi di laurea appena costituiti e di qualche nuovo piccolo ateneo.

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I tagli finanziari dei governi di quegli anni su università e ricerca si accompagnavano alla stupidità di non capire che la riduzione del personale docente e dei finanziamenti agli atenei, nonchè l’eliminazione di molti corsi di laurea che non avevano più i requisiti per esistere, avrebbero determinato una riduzione del potenziale universitario e quindi delle iscrizioni. E così è stato: oggi le matricole all’università sono in forte calo. E tutti (o quasi tutti) piangono per un paese che avrà sempre meno laureati!

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Un’altra novità avviata in questi anni è stato il sistema di valutazione di atenei, dipartimenti (che hanno sostituito le tradizionali Facoltà) e corsi di laurea. I finanziamenti ministeriali non sono più erogati “a pioggia” solo in funzione della dimensione dell’ateneo, ma, almeno in parte, secondo parametri di qualità delle performance di ogni ateneo. Per quanto riguarda la valutazione dei dipartimenti è stato istituito il sistema VQR, basato sulla valutazione da parte di altri docenti in incognito (peer review) delle migliori pubblicazioni di ogni docente. Un sistema che sembra funzionare bene. Per quanto riguarda i corsi di laurea il sistema è più complicato, appesantito da complesse procedure di accreditamento e autovalutazione condotte dagli stessi docenti, che spesso creano intralcio alle attività didattiche e di ricerca. Comunque, al di là di forzature burocratiche, la macchina di valutazione in qualche modo ha allineato gli atenei italiani agli altri paesi europei.

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Dove invece la L.240/2010 ha creato guai è proprio nel sistema di reclutamento, malamente derivato dalla “tenure track” di pratica soprattutto statunitense. Il dispositivo della L.240 in linea generale prevede per l’assunzione come professore associato (ruolo a tempo indeterminato) un primo concorso per il titolo di ricercatore a tempo determinato“a” della durata di 3 anni; una verifica delle attività per una proroga di due anni; un secondo concorso per un titolo sempre di ricercatore a tempo determinato “b” di altri tre anni; il conseguimento della abilitazione nazionale; infine il concorso di sede per l’immissione in ruolo come professore. Sono 5 step in 8 anni, sono troppi! Da una parte l’ateneo investe ed accantona i compensi per l’intero percorso, dall’altra se il ricercatore non ottiene l’abilitazione perde il posto. I pochissimi posti messi a concorso contro l’alto numero di studiosi che escono dai dottorati di ricerca creano una strozzatura che rischia di stroncare non solo molti dei meritevoli, ma anche quelli tra loro già avviati lungo questo percorso. Le commissioni sono composte da professori ordinari in maggioranza di sede, ed è qui che, inevitabilmente, possono prendere corpo appoggi non sempre impeccabili.

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Oltre al meccanismo un po’ perverso degli otto anni di tenure track, ce ne sono altri che non giustificano, ma spiegano l’appoggio che nelle singole sedi talvolta viene dato ai candidati interni. Ad esempio c’è propensione ad inserire in uno specifico filone di ricerca ricercatori e/o professori associati che già hanno lavorato e pubblicato su quella ricerca. Oppure – e vale soprattutto per le sedi decentrate sul territorio nazionale – a preferire candidati che oltre ad un alto standard di meriti, garantiscono la copertura di più insegnamenti e una presenza in sede più assidua, a fronte di candidati residenti fuori sede (a volte centinaia di chilometri), altrettanto meritevoli, che però offrirebbero una più limitata presenza.

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Il presidente della Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone, propone di cambiare le commissioni per l’abilitazione inserendo una personalità al di fuori del mondo accademico, ma non scrive (e forse non sa) che le prime commissioni includevano questa personalità, che era appunto uno studioso o docente straniero; la cosa però non aveva funzionato per la scarsa disponibilità di queste persone e si è tornati alla commissione di cinque professori. Sono ancora più diffidente rispetto alle affermazioni di Massimo Cacciari comparse sullo stesso giornale il giorno dopo, con le quali, in nome dell’autonomia dell’università, chiede la cancellazioni di ogni criterio per regolare gli insegnamenti dei corsi di laurea, i concorsi, i criteri di valutazione, sino alla abolizione del valore legale del titolo di studio. Ipotesi, quest’ultima, a mio avviso valida solo per un numero limitato di professionalità. Invece Cantone ha ragione quando propone di vietare ai professori a tempo pieno gli incarichi esterni, che creano situazioni di “distrazione” non solo dagli impegni didattici e di ricerca, ma anche da una condotta eticamente impeccabile. Tra l’altro questi incarichi sono consentiti da un disposto di legge ambiguo, che li consente se “scientifici” e li vieta se “professionali”. Più in generale esiste una discriminazione tra i medici che possono esercitare la professione in forma “intra moenia”, e altre professioni (ingegneri, architetti, ecc…) cui è invece espressamente vietato.

In conclusione desidero avanzare due proposte molto semplici. La prima riguarda la pessima consuetudine delle “raccomandazioni” presentate furtivamente e che spesso si trasformano in corruttivi scambi di favori. Si faccia come si fa all’estero e nei dottorati di ricerca di alcuni atenei italiani. Si dia la possibilità al candidato di presentare due o tre lettere sui propri meriti e titoli, scritte e firmate da docenti o personalità di rilievo. Lettere pubbliche ed ufficiali allegate alla documentazione concorsuale. La seconda è che, una volta conseguita l’Abilitazione Scientifica Nazionale, si formi una piattaforma nazionale di abilitati al ruolo di professore (distinta tra associati e ordinari) alla quale ogni dipartimento potrà attingere, senza altro passaggio concorsuale, ma solo attraverso un voto del Consiglio di Dipartimento e/o del Senato Accademico. Sarebbe tutto più veloce, semplice e soprattutto trasparente. Poi, se le università chiamano docenti mediocri, saranno opportunamente valutate con i meccanismi in vigore già esistenti.

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