LUI, LEI, LORO e gli ALTRI

sorrentino e garrone

Vorrei ricordare insieme gli ultimi film di Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, Loro (1 e 2) e Dogman, non perché confrontabili, ma perché rappresentano due percorsi paralleli del grande cinema italiano. E’ indubbio che i due registi, quasi coetanei e appena sotto i 50 anni, siano riconosciuti a livello internazionale come l’attuale massima espressione del nostro cinema. Se sono imparagonabili i loro film, è altrettanto difficile poterli valutare rispetto ai grandi maestri del passato. Eppure mi sento di esprimere un concetto secondo una logica proporzionale commisurata alle relative differenze: direi che Fellini sta a Sorrentino, come Pasolini sta a Garrone. I primi accomunati dalla ricerca di una astrazione narrativa e formale sui paradisi terreni della classe dominante; i secondi dalla rappresentazione realista dei conflitti che attraversano le comunità in ogni tempo.

 Critica e pubblico si sono divisi sia su Loro che su Dogman: sul film di Sorrentino molte critiche e pochi elogi, su quello di Garrone l’inverso. In contrasto con la maggioranza delle opinioni, per me Loro non è il peggior film di Sorrentino, come Dogman non è il migliore di Garrone. Entrambi ci confermano come i grandi registi – ma anche i grandi artisti, architetti, scrittori, musicisti, ecc… – nella fase matura della loro attività si stabilizzino in un ambito creativo autoreferenziale, esprimendosi in un linguaggio personale che prevale sulla originalità delle idee.

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Ancora una volta Sorrentino tratta il tema del transito  alla vecchiaia. In questo caso la vecchiaia coincide con la caduta di un potere che ha uno spettro ampio: denaro, donne, consenso e politica. Il Berlusconi di Sorrentino è convinto che dominare tutti questi ambiti consenta di essere amato. E la sua sofferenza è quella di perdere un presunto amore. “Hai l’odore del vecchio” gli dice la giovane donna che lo rifiuta, nei giorni stessi in cui la moglie Veronica lo abbandona ed esplodono i suoi guai giudiziari. Così scopre che non è mai stato vero amore quello dei politici di sottobosco che lo assediano per chiedere favori, né quello di arrivisti tirapiedi che vogliono fare soldi o di giovani donne che aspirano al lavoro in TV o nel cinema. E che non è neppure reale l’amore di una moglie che si sente intellettualmente ed eticamente lontana. Berlusconi scopre di invecchiare nel vuoto.

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Penso che il film di Sorrentino anziché Loro, si sarebbe dovuto chiamare Lui e Lei, perché, soprattutto nella seconda parte, il cerchio della rappresentazione si stringe sul tramonto del rapporto di coppia, che diventa metafora del tramonto del leader politico. Il primo episodio del film, quasi interamente costruito sulla giostra di decine di veline seminude, che sembrano catapultate dalle trasmissioni Mediaset del “sesso per famiglie” mandato in onda la domenica pomeriggio, è sicuramente meno riuscito del secondo. Loro 2 è più articolato e, direi, più triste, con la bellissima sequenza finale che finalmente ci fa capire chi sono i veri “Loro”. Bene avrebbero fatto Sorrentino e produzione a rinunciare a molte ridondanze di sceneggiatura, realizzando un unico film. Forse l’esperienza seriale dello Young Pope di Sky ha incantato e condizionato il regista.

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Se Lui Lei e Loro appartengono al film di Sorrentino, gli Altri popolano il film di Garrone. Come il Berlusconi di Paolo Sorrentino è incarnato nel genio istrionico di Tony Servillo che lo ricorda molto poco, così la vicenda del canaro della Magliana per Matteo Garrone è solo lo spunto di una storia riscritta in una diversa location e sulla misura di un interprete di talento come Marcello Fonte. Il regista di Dogman ha modificato il paesaggio entro il quale si svolge la vicenda della cronaca nera romana: dalla cruda periferia della Magliana trasferisce il set in un luogo ancora più duro, il Villaggio Coppola di Castel Volturno, che gli è caro perchè già sperimentato con successo ne L’Imbalsamatore e Gomorra. Questo contesto rappresenta il massimo degrado di un luogo urbano. La scenografia del film è avvolgente e coinvolgente, buia anche di giorno, cupa nella sabbia terrosa, acida nei riflessi delle pozze d’acqua sull’asfalto, ansiogena nei silenzi e negli echi di rumori e grida. Ci ricorda gli scenari periferici di Botto&Bruno, ma senza la distanza che una invenzione artistica basata sul collage impone allo spettatore.

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In questo contesto casertano immediatamente riconoscibile, suona contraddittorio il dialetto romano dei protagonisti. Poi ci si accorge che è la sintesi (voluta) di due paradigmi cinematografici del cinema italiano sulla violenza metropolitana: il degrado fisico e quello culturale. Anche Pasolini ambientava i suoi film nel degrado della periferia; ma era il degrado di borgata, di un paese povero sospeso tra città e campagna, vittima di una guerra persa ma con speranze di futuro. Il bianco e nero della pellicola appiattiva i contrasti decantandoli in una visione letteraria, quasi poetica. Quello di Dogman invece è un degrado urbano frutto del malaffare edilizio e destinato a non cambiare. Chi lo abita, oltre che vittima, sembra esserne anche l’artefice connivente e responsabile. Se Accattone ed altri film di Pasolini si potevano inscrivere nel cosiddetto filone neorealista, Dogman allora è definibile come cinema iperrealista.

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Nonostante la grande regia di Garrone nel fondere lo spazio della narrazione con lo spazio urbano e la bravura degli attori – Fonte è grandioso – e al di là dell’apparato scenografico di qualità anche negli interni, il film non solleva grosse emozioni e non commuove nella ricercata lentezza in cui avviene il transito del protagonista dalla assoluta e ingenua mitezza sino alla ragionata ed efferata violenza.

 

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