Nonostante siano passati molti anni, ricordo bene quella serata alla Casa dell’Architettura di Roma nella quale gli architetti romani discussero appassionatamente del progetto di Diener&Diener che nel 2000 aveva vinto il Concorso per la riprogettazione dell’incompiuta Ala Cosenza, progettata dall’architetto napoletano nei primi anni Settanta. Si aprì infatti una polemica tra chi chiedeva di salvare l’edificio del maestro razionalista ormai in stato di abbandono e chi invece sosteneva la necessità di avviare il progetto di concorso degli architetti svizzeri che ne prevedeva la demolizione.

Già dalla fine degli anni Cinquanta l’allora Soprintendente Palma Bucarelli aveva cercato di rilanciare e ampliare la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma. Su consiglio di Giulio Carlo Argan aveva coinvolto addirittura Walter Gropius. Ma, quando furono disponibili i finanziamenti, l’incarico venne affidato a Luigi Cosenza. Il progetto era stato avviato negli anni Settanta, ma fu completato solo in parte, tanto da cadere presto in degrado. Era una storia molto “romana”, che tra consensi e dissensi si prolungò per anni bloccando qualunque intervento di trasformazione del complesso della Galleria, che, tra adeguamenti e restauri aveva mantenuto l’assetto originario dei progetti di Cesare Bazzani (1911 e 1933).


Le collezioni, con molte opere importanti, rimasero ingabbiate in una esposizione cronologica e paludata adeguandosi alle tonalità neoclassiche e accademiche del grande Palazzo espositivo: l’Ottocento nella parte più antica, il Novecento in quella successiva e l’arte contemporanea nel corpo moderno di Cosenza, almeno nella sua parte agibile.
Ercole e Lica del Canova nella esposizione tradizionale ed oggi
Nei primi mesi di quest’anno, dopo la riforma del MiBACT e la nomina dei nuovi Direttori degli Istituti Museali, Cristiana Collu ha portato a compimento un lavoro di restauro architettonico e un programma di allestimento fortemente innovativo. Si parla anche della sistemazione dell’Ala Cosenza con un finanziamento di 15 milioni di euro. Ora la Galleria, seppure conservando le sue collezioni tradizionali, si trasforma in uno spazio performativo che muove ed assembla progressivamente le sue opere.
(foto Domus)
Innanzi tutto va detto che finalmente è possibile apprezzare le qualità architettoniche originali degli interni del palazzo di Bazzani. Sono state eliminate quasi tutte le pareti secondarie pensate per suddividere ed articolare gli spazi espositivi. La luce piove dall’alto ma anche dalle grandi finestre che in trasparenza scoprono i cortili interni. Gli ambienti si aprono ora l’uno sull’altro suggerendo prospettive e compresenze visuali. Lo spazio è fluido a partire dalle aree di ingresso, dove i servizi di accoglienza si alternano con quelli di merchandising e di ristoro. Un allestimento coraggioso del designer Martí Guixé volto a definire una vera piazza pubblica popolata di banchi ordinari, quasi carretti, dal colore sabbia che riprende quello delle colonne. Tutto il resto è bianco.
(foto Domus)
La mostra che ha inaugurato la riapertura della Galleria era stata The Lasting. L’intervallo e la durata, la seconda Time is Out of Joint si è aperta 11 Ottobre scorso. Ma in entrambe non c’è ordine cronologico, nè raggruppamento per arti visive o distinzione tra le diverse espressioni e i diversi movimenti artistici. Il visitatore si trova di fronte a dipinti, sculture, fotografie, video e installazioni accostate insieme nelle diverse sale. Così la prima sensazione è di disorientamento e disagio, motivata anche dalla mancanza di qualunque guida illustrativa sia audio che visiva. La consuetudine di percorrere un museo come esperienza di approfondimento culturale ci porta a cercare un qualsivoglia criterio che regoli l’accostamento delle opere. Eppure è tutto lì nel titolo, Time is Out of Joint. Lo sfasamento temporale raggiunge il suo scopo, perché presto anche quell’ultima resistenza che istintivamente ci porta a pensare ad un accostamento tematico stanza per stanza, viene meno quando in una delle prime sale che sembra dedicata al corpo della donna, una natura morta di pere e mele rende “politically incorret” la nostra supposizione.
Liberati dell’ossessione del rigore culturale, ora possiamo percorrere le sale in una condizione di piena libertà, apprezzando le opere solo per la propria bellezza, anzi trovando nuovi stimoli nella visione comparata di opere d’arte prima lontane nel tempo e nello spazio ed ora coraggiosamente vicine: il tempo non ha più senso. Forse anche per i visitatori meno smaliziati è un modo meno impegnativo, quasi spensierato, per visitare un museo. Per l’apprendimento dei giovani e l’approfondimento culturale ci saranno altre occasioni.
Evviva Umberto! Finalmente condivido in pieno una tua posizione. Sei riuscito con la tua efficace scrittura a descrivere esattamente le sensazioni che ho provato girando domenica scorsa nella Galleria. Ho provato a chiedere al desck una pianta delle sale … non c’è. Ma come tu dici è giusto così ed è piacevole passare da un Balla ad un Fontana o altri così, senza altro stimolo che quello del piacere visivo. Bella la soluzione di eliminare tutti quegli spazi intermedi che non consentivano di godere della ampiezza delle sale e della loro equilibrata dimensione. Mi è piaciuto!
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Grazie Someone… ma chi sei, ti conosco?
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