Captain Fantastic, di Matt Ross, è un bel film che crea disagio. Ben (Viggo Mortensen), un intellettuale che vive in isolamento con i figli in una foresta nel nord-ovest degli Stati Uniti, è pervaso da un furore eco-ideologico in una commistione di marxismo, anarchia e naturalismo. Adora Noam Chomsky come un dio ed educa i figli a pratiche cruente di caccia, sfide estreme alla natura e fanatismo culturale.
Tutta la prima parte del film è costruita in modo da indurre nello spettatore un senso di fastidio e di distanza per una strana famiglia che vive “fuori dal mondo”, composta da padre, tre figli maschi e tre femmine (assente la madre) e che si presenta come lascito estremo della cultura hippy e radicale di cinquanta anni fa. Una cultura oggi assorbita nei comportamenti contemporanei, ma respinta quando si manifesta come settarismo ideologico.
Ma quando la strana famiglia, nello sviluppo della storia, si incontra (e si scontra) con l’altra famiglia, quella che nel mondo ci vive e ci vive bene, nel lusso e nel buon senso delle regole, dei principi e dei comportamenti, scatta qualcosa che ci scuote e ci fa rivolgere “dentro il mondo” il senso di fastidio e di distanza. Perché ci ricordiamo che dentro il mondo c’è ipocrisia e viltà, artificio e ignoranza. Ma soprattutto spesso una insopportabile distanza dalla verità.
Senza cadere nella facile dialettica degli opposti, il film ci accompagna in questo doppio problematico senso di disagio con equilibrio ed ironia, senza pacificare i due estremi, ma neppure demonizzarne alcuno, invitandoci però a non porci dentro il mondo, ma dentro il nostro tempo.