Viva il design delle piccole case

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In Occidente al grande pubblico la casa giapponese era nota solo per i pavimenti in legno, per i tatami, le porte fusuma, i divisori in carta di riso, i letti futon, i tavolini zataku, e così via. Gli architetti ne avevano apprezzato la capacità di reinterpretare il razionalismo dei maestri europei senza dimenticare la loro tradizione e di proiettarsi nel futuro delle nuove realtà metropolitane. Nello stesso tempo, soprattutto in Europa, l’idea di casa, già definita nella prima metà del XX secolo secondo i paradigmi dimensionali e funzionali della “casa per tutti”, poi dilatata nel dopoguerra nella dimensione delle periferie, tornava a valorizzare la piccola dimensione anche all’interno della delle aree urbane centrali o semicentrali. E le cose sono cambiate. Nel 1997 usciva il numero 92 della rivista Lotus con una parte monografica dedicata a piccole case urbane, titolata Atti minimi di decostruzione del tessuto, piccole finestre sul futuro. Una lunga sequenza di esempi di piccole case costruite negli angusti spazi interstiziali degli isolati giapponesi era aperta da un progetto di Waro Kishi, House in Nipponbashi ad Osaka.

E’ una casa costruita all’interno di un lotto largo 2,5 metri e profondo 13. Un infill urbano minimale, quasi una scommessa. Era la certificazione di un possibile nuovo Existenzminimum tutto dentro la città, con un lavoro di ridefinizione tipologica dello spazio interno che attingeva con coraggio alla tradizione giapponese. Quindi lontano dai principi sociali che avevano ispirato gli architetti razionalisti tra le due guerre del XX secolo, ma attento a reinterpretare le esigenze dell’abitare contemporaneo.

Tutto questo ed altro ancora è bene in evidenza nella Mostra The Japanese House – Architettura e vita dal 1945 ad oggi, aperta al MAXXI di Roma sino alla fine di Febbraio. Una rassegna pensata ed allestita in modo eccellente, frutto della collaborazione del Museo di Arte del XXI secolo di Roma con il Barbican Centre di Londra. “Evviva il design delle piccole case”, aveva scritto Arata Isozaki (ma in forma anonima, quasi a non volere contraddire la sua fama di archistar delle grandi opere), ed evviva la volontà di tornare a concepire la casa come home. Uno spazio dell’abitare, minimo spazialmente e minimalista formalmente, in cui tutto è piccolo ma non manca nulla, costruito a basso costo, ma attento alle condizioni climatiche e al risparmio di energia. Case pensate per i giovani e per una dimensione privata ristretta che chiede di integrarsi con una dimensione pubblica e collettiva. Case piccole, ma dentro la città. Case che dureranno il tempo di una generazione di giovani, vent’anni o poco più, poi se ne faranno altre. Ma non più la casa come bene di investimento che riempie ed intasa le periferie. In questo il Giappone non poteva non essere guida sensibile e competente.

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