ELLE, una delusione

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Dopo averne letto i commenti al Festival di Cannes 2016, le recensioni favorevoli di quasi tutti i critici e avere preso atto dei premi ricevuti (César come miglior film e migliore attrice, Golden Globe come migliore attrice) sono andato volentieri a vedere Elle, di Paul Verhoeven, con Isabelle Huppert, tratto dal libro Oh… dello scrittore francese Philippe Djian (che non ho letto).

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Trovavo inquietante, ma coraggioso sviluppare una storia di stupro, andando oltre il senso comune del rigetto di uno degli atti più disumani che si possano commettere contro la persona. Sapevo di trovarmi davanti alla vicenda di una donna matura, sessualmente libera, che avrebbe elaborato la stupro subìto in modalità diverse ed imprevedibili. Conoscevo anche Verhoeven come un regista in grado di gestire senza moralismi storie intricate.

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E invece mi sono trovato a vedere un film pensato, scritto e diretto molto male. Gli scompensi di sceneggiatura e regia disturbano sin dall’inizio quello che doveva essere un thriller psicologico duro e violento. L’uomo mascherato in perfetta tuta alla Diabolik invece di spaventare fa sorridere. Le fragili porte vetrate della casa di Michelle vengono protette da nuove serrature mentre sarebbe bastato chiudere le persiane. Il figlio è un tontolone ingannato da una stereotipata furba ragazzetta. L’amante di Michelle è un macho arrapato, mentre l’ex marito è un coglionazzo che però acchiappa giovani ginnaste. La scuola di Yoga sembra una palestra di fighetti. Un parto dura, dalle doglie alla nascita, il tempo di un caffè. Madre e padre muoiono in un paio di giorni. Tragedie vissute e tragedie imminenti. E infine lo svelamento del violentatore con una faccia da amante del cinema muto. Se queste stranezze sono intenzionali per rappresentare i personaggi in modo caricaturale (o grottesco, come alcuni critici sostengono), allora perdono senso le intenzioni drammatiche esposte in una intervista dallo stesso Verhoeven su Elle come “donna che ha subito eventi fortissimi nella sua infanzia, scansando il vittimismo e il tormento… una sopravvissuta, formata da un episodio terribile”. Insomma su questa vicenda difficilmente possono convivere humour e dramma.
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Così, in un guazzabuglio di personaggi e di eventi, la celebrazione di un piacere che va oltre le regole del conformismo, l’atteso ribaltamento del “politically correct” in nome di una sessualità libera ed incontrollabile, in definitiva quella che doveva essere la capacità eversiva del film si conclude nel più scontato moralismo di un finale in cui una donna ne esce sorridente in nome della fede, a altre due se ne vanno via felici nella ritrovata amicizia.

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Chiedo scusa al lettore se ho svelato qualche dettaglio di troppo, ma la mia delusione per questo film è pari allo sconcerto nei confronti di una critica che lo ha celebrato in modo quasi unanime. Dimenticavo: Isabelle Huppert è una sessantenne affascinante, unica cosa ammirevole nel film.

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