La Biblioteca progettata e realizzata recentemente a Tianjin, in Cina, da MVRDV ha sollevato discussioni (anche sui social media) tra gli architetti, non tanto per i suoi caratteri spaziali e formali, caratterizzati da un grande atrio circondato da un sistema seriale di ripiani che convergono verso l’alto, quanto per il dispositivo che sostituisce ai veri libri la loro immagine simulata. Infatti lungo i ripiani più alti, non raggiungibili da scale perché fortemente aggettanti l’uno sull’altro, appaiono sequenze di dorsi di libro stampate su lastre di alluminio traforate.
A tal proposito, sul loro sito, i progettisti, dopo avere spiegato di avere avuto a disposizione solo tre anni per progettare e realizzare l’imponente opera, spiegano che il rispetto dei tempi di costruzione ha imposto di rinunciare ad una parte essenziale del progetto: l’accesso agli scaffali alti dal retro, ovvero dalle stanze dei piani superiori poste dietro l’atrio. Questa rinuncia, aggiungono gli MVRDV, fu presa dai partner locali contro il loro parere. I progettisti si augurano che la funzionalità completa della biblioteca possa essere realizzata in futuro, ma fino ad allora resteranno le immagini stampate a rappresentare i libri inaccessibili sugli scaffali superiori.
Una prima, facile considerazione in proposito potrebbe richiamare come riferimento l’iconica Biblioteca di Boullée, dove l’intero basamento della gigantesca volta a botte è ricoperto di libri. Ma il paradossale esito dell’atrio della Biblioteca di Tianjin e la discussione che ne è scaturita pongono un quesito più ampio, che coinvolge molta architettura contemporanea e che mi consente una divagazione. Quando l’edificio tende a non esprimere solo la sua spazialità e funzionalità ma vi sovrappone un’immagine, questa possiamo considerarla una maschera? E se la rappresentazione dell’architettura è una maschera, questa maschera esprime la sostanza, il contenuto, l’istituzione, o è una connotazione estranea, liberatoria, persino conflittuale? Il mascheramento è come una pelle con una sua autonomia espressiva, oppure deve essere come la veste che modella il corpo di una statua greca: rivelarne la bellezza nascondendola?
Il comprensibile è solo una parte della sostanza, della segreta attività dell’architetto e di tutti coloro che quell’opera hanno realizzato. Pensiamo alla sofferta espressività di Terragni nel Progetto di concorso per il Palazzo Littorio a Roma nel 1934, quando per accordare la complessità del dato funzionale contenuto nelle volumetrie ai due temi centrali dell’impegno progettuale, il rapporto con la Basilica di Massenzio e i Fori Imperiali da una parte, la celebrazione dell’istituzione politica dall’altra, sdoppia una parete dell’edificio, la sposta avanti, la sospende da terra, la appende a due travi metalliche, la incurva verso il Colosseo, ne fa un muro–sipario pronto per la rappresentazione. Ma quale rappresentazione? Da una parte la celebrazione della dittatura attraverso il podio per il Duce che si affaccia dalla fenditura scavata in alto lungo l’asse centrale del muro; dall’altra la esaltazione della invenzione del muro sospeso attraverso il tracciamento delle linee isostatiche che descrivono lo scorrere delle tensioni. Da semplice sipario il muro diventa maschera tatuata, trasmette il significato celebrativo, ma non rinuncia a dichiarare l’aspetto costruttivo del muro, esprimendo tutta la contraddizione e l’ambiguità della soluzione architettonica.
In passato, dalla classicità antica attraverso il Gotico sino al Rinascimento, il contenuto funzionale e simbolico dell’architettura si era sempre legato alla struttura come spazio e come arte del costruire. Insieme costituivano l’essenza incontaminata ed incorruttibile della rappresentazione architettonica. Ma già alla fine del XVIII secolo, con l’Illuminismo, questa rappresentazione si distacca dalle sue ragioni materiali e costruttive: il Cenotafio di Newton di Boullee costituisce paradigma di questa sfida che incrina le certezze e l’indissolubilità della triade vitruviana. Quale è la struttura, quale la concretezza costruttiva di un progetto che resta pura immagine sospesa nella sua dimensione ultraterrena, ma fortemente rappresentativa di una istituzione umana?
E così, a seguire, tutta l’architettura “parlante” di Ledoux, dal Ponte di barche alla Casa del Direttore della sorgente alla Casa di piacere, mette in primo piano “l’apparenza” dell’architettura e il suo bisogno di comunicare il carattere istituzionale o simbolico più che funzionale. La forma dell’architettura in questo caso non descrive uno spazio, ma trasmette un messaggio, non rappresenta una funzione, ma ne sintetizza il significato in una metafora, non diversamente dal Chicago Tribune di Loos o il Chiat Day Office Building di Gehry.
Nella metà dell’Ottocento Gottfried Semper con il concetto di membrana e rivestimento e Karl Bötticher con quello di Kernform (forma nucleo) e Kunstform (forma artistica) avevano ulteriormente teorizzato l’inevitabile distinzione tra l’apparato spaziale, costruttivo e tipologico dell’architettura e la sua rappresentazione formale. Schinkel progetta la sua Chiesa sulla Friedrichswerder a Berlino proponendo come maschera interna una doppia soluzione: l’apparato gotico oppure quello classico romano, non diversamente da come Terragni per il Novocomum e Vaccaro per il Palazzo delle Poste, per tranquillizzare i committenti nel clima accademico del tempo, avrebbero camuffato i loro progetti con prospetti tradizionali, interpretando con stilemi diversi lo stesso apparato funzionale e compositivo.
Il Movimento moderno costituisce una inversione di tendenza rispetto al passato e il procedimento dell’astrazione lo conferma, perché, riducendo enfasi e retorica esalta i contenuti. Anche il conflitto tra organico e razionale, e le estreme connotazioni espressive che ne sono derivate, analizzate da Adolf Behne nel suo Der moderne Zweckbau come una questione ideologica e di linguaggio più che come diversa interpretazione dello spazio, rimane neutrale rispetto al comune convincimento funzionalista che ripristina lo stretto rapporto di dipendenza tra struttura e involucro.
L’autonomia tra immagine e funzione, anticipata dagli architetti visionari del Settecento, negata dal Movimento moderno, torna a risuonare quando la rivoluzione informatica scopre una dimensione virtuale e una conseguente nuova visibilità che trascende i contenuti materiali. Come un fluido incontrollabile, il “virtuale” dalla sua dimensione tecnologica è scivolato nelle dimensioni quotidiane del reale, investendo l’architettura e la città, e trasformando il suo “corpo tettonico” in “corpo immateriale”, ovvero in pura immagine. Dunque se una biblioteca si identifica con il libro, trovando in una sineddoche la forza della sua rappresentazione istituzionale, che importa se i libri sono finti o veri? (*)