Era il 22 febbraio 2014 quando risuonava la campanella passata dalle mani dell’accigliato Letta a quelle di un euforico Renzi. Fra tre mesi saranno 4 anni e saremo molto vicini alle elezioni politiche. Sono cambiate molte cose. A livello internazionale Trump ha cancellato Obama, La Corea del Nord minaccia guerre, l’Isis è stato militarmente sconfitto ma il terrorismo è rimasto come guerra strisciante e cronica, la Brexit ha colpito l’Europa, i populismi e le destre sembrano prendere ovunque il sopravvento… A livello nazionale il Partito Democratico ha perso pezzi, il centrosinistra ha perso consensi, i Cinque Stelle e le destre sono elettoralmente cresciuti occupando comuni e regioni, è tornato in campo Berlusconi, la crisi sembra finita mentre cresce il PIL… Ai commentatori ed opinionisti politici spetta il compito di valutare – anche da punti di vista diversi – quanto di buono o di sbagliato sia stato fatto dai due governi di questi anni, ma è innegabile che oggi il nostro paese è attraversato da una crisi della politica che poggia su due gravi sintomi tra loro interconnessi: da una parte la devianza del dibattito politico spostato dal campo degli obiettivi e delle proposte a quello della demolizione sistematica dell’avversario, e dall’altra la diminuzione progressiva del numero dei votanti alle elezioni. Basta seguire i giornali e i talk show o le pagine elettroniche di un qualunque social media per trovare pochissime idee concrete ed economicamente sostenibili a fronte di una quantità inverosimile di attacchi all’avversario, di ingiurie e di fake news; e nelle stesse pagine, dibattiti o interviste è possibile capire come oggi l’astensione dal voto coinvolga anche fasce di elettori acculturate, molte delle quali tradizionalmente orientate a sinistra.
Vorrei provare a rimettere in fila alcuni passaggi fondamentali della recente vicenda politica nazionale cercando di non dare giudizi, ma con l’unica finalità di capire le relazioni di causa/effetto che hanno portato a questa crisi. Non si erano ancora spenti gli echi del successo elettorale dei Cinque Stelle alle elezioni del 2013, quando, poco più di un anno dopo, alle elezioni europee, Renzi con il suo PD superò il 40% dei consensi. Un successo collegato ad una figura emergente che aveva saputo rinnovare i quadri dirigenti del partito. Ma fu una “vittoria di Pirro”, dovuta alla innegabile presunzione di Renzi, perché proprio da quella vittoria è iniziata la sua caduta. Mentre infatti il suo governo di centrosinistra operava su molti piani e con una certa tempestività sul lavoro, sulla scuola, sui redditi bassi, sui diritti civili, sulla giustizia, ecc… per cercare di riallineare l’Italia al resto d’Europa, il Presidente del Consiglio Renzi si concentrava su due riforme ritenute fondamentali: la riforma elettorale, necessaria per sostituire il “Porcellum” e garantire governabilità, e la riforma costituzionale, opportuna per rendere più agile e funzionale il Parlamento.
E qui Renzi commise due gravi errori. Il primo sulla legge elettorale: puntò sulla fragile alleanza con Forza Italia e, invece di aprire un più ampio dibattito parlamentare, subì la marcia indietro di Berlusconi, facendo approvare con la fiducia una legge che poi sarebbe stata dichiarata incostituzionale. Il secondo errore, colossale, sulle riforme costituzionali: invece di portare avanti separatamente i cinque punti della riforma (cfr: https://umbertocao.com/2016/10/14/ce-chi-dice-si/ ) evitando di “politicizzare” questioni che, sebbene osteggiate da alcuni costituzionalisti, non erano malviste
dalla maggioranza delle forze politiche, ha trasformato il referendum costituzionale in un referendum sulla propria persona. Per di più proprio in quei mesi si acuiva il conflitto con la “vecchia guardia” del partito sempre più emarginata da decisioni e responsabilità. Come si dice, “andarono tutti a nozze” e Renzi fece il “botto”, perché la minoranza del suo partito, già in agitazione per alcuni provvedimenti di legge sul lavoro, prese una posizione durissima proprio contro il referendum saldandosi con le opposizioni delle destre e dei Cinque Stelle. Tutti contro Renzi, dunque, e Renzi cadde insieme al 60% dei no al referendum. Da allora il conflitto politico assunse toni oltremodo aspri.
Il nuovo governo Gentiloni – sostanzialmente la prosecuzione del governo Renzi – è nato mentre dal PD usciva un folto gruppo di parlamentari, e si è trovato in una tempesta politica gestita dalle opposizioni di ogni colore che, sull’onda della vittoria al referendum, continuavano ad accanirsi contro il Partito Democratico. Fallimenti e salvataggi delle Banche, scandalo Consip, problema delle immigrazioni visto da destra (“basta con gli immigrati”) e da sinistra (“basta con i respingimenti”), nuova legge elettorale approvata in extremis, ius soli e fine vita, jobs act da cancellare, destra razzista in piazza, alleanze fallite, tutto apre conflitti e rischi per un governo che sembrava avere un diffuso consenso. Tutto questo sarebbe un legittimo scontro democratico se le ragioni del contendere fossero idee e proposte. Invece prevale l’attacco all’avversario con la ricerca di occasioni per trascinarlo nel fango. I leader vengono sbeffeggiati per la loro ignoranza o saccenteria, per la timidezza o l’arroganza, per l’età o la bellezza (se donne), per ogni presunto legame con il malaffare, sui giornali di parte, nelle vignette o performance di comici televisivi, sui social media, nelle fake news. Si critica il tifo estremo negli stadi, ma il “tifo” spostato nella politica è molto peggio e allontana ulteriormente l’interesse per la cabina elettorale.
Una grossa responsabilità va addebitata alla antipolitica e allo slogan “i politici sono tutti ladri”. Tutto cominciò con il “vaffa” di Beppe Grillo, ma allora c’era ancora un po’ di ironia, oggi è tutto tremendamente serio.