La sineddoche è una espressione retorica che nomina una parte per il tutto, ovvero descrive qualcosa che rimanda ad un insieme più ampio. È il caso dello “stradone”, ambientazione dell’omonimo romanzo di Francesco Pecoraro (Lo Stradone, Ponte delle Grazie, 2019). Lo stradone – così lo chiama Pecoraro – è una parte della città di Roma, Valle Aurelia, già Valle dell’Inferno, cresciuta tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso in un’area già occupata da un borghetto autocostruito e prima ancora da fornaci, attorno ad una arteria di grande viabilità urbana, che concentra in sé, temporalmente e spazialmente, le caratteristiche dell’intera città. O almeno di una estesa parte urbana che corrisponde a quella cresciuta a macchia d’olio attorno al centro di Roma, a seguito degli entusiasmi speculativi edilizi del miracolo economico italiano. Almeno così io l’ho intesa.
Tutte le caratteristiche materiali di questa parte della Roma di oggi, il nastro stradale con sottopassi e ponti, le auto che corrono e quelle parcheggiate in doppia fila, i semafori, i parcheggi di scambio, le stazioni metro, un pezzo residuale di campagna tra le case, palazzine, intensivi e case popolari, i marciapiedi sporchi con i negozi più o meno pretenziosi e frequentati, i bar con i tavolini fuori; ma anche la fauna umana, le diverse tipologie culturali e anagrafiche, i modi di vivere e parlare, insomma tutto sembra muoversi come in una rappresentazione cinematografica a campo lungo di un qualsiasi pezzo della prima periferia romana abitata dal cosiddetto ceto medio. E tutto passa attraverso il tritacarne spietato di Francesco Pecoraro.

Ma non è solo questo il motivo per il quale, dopo averlo letto, mi piace riflettere un po’ su questo secondo romanzo di un architetto-scrittore che ho conosciuto appena di persona, ma che appartiene alla mia stessa generazione e formazione. Pecoraro ci parla di un settantenne immerso in una città vissuta come amica bruttina, ma al tempo stesso nemica fascinosa e della sua curiosità di capirne la storia e i misteri. Una città “non città” esito di una selvaggia speculazione edilizia, quindi indecifrabile e caotica, ma dalla quale non riesce a fuggire. Percorrendo lo stradone o prendendo un caffè al bar, si sofferma ad osservare l’umanità del “grande ripieno”, non più suddivisa in classi ma in strati, di cui il più spesso e confuso è proprio quello intermedio: un ceto che aspira a salire ma che quasi sempre è costretto a scendere. Il protagonista, in diversi momenti della sua vita, guarda le persona deformate nelle loro debolezze e ritualità, terrorizzato che possano somigliare a se stesso. In essi, a malincuore e con rabbia, ritrova la propria noia nel lavoro a tavolino, la pigrizia della pensione, il grottesco nell’abbigliamento, nelle parole e nelle movenze, gli entusiasmi spenti, il rimpianto per le occasioni perse, il cinismo consolatorio, l’amarezza per gli errori e l’angoscia di una vecchiaia incipiente. Poi, quasi si spaventa e ne prende le distanze con quell’inevitabile senso di superiorità che la sua collocazione intellettuale e borghese gli consente.
Una considerazione personale: leggere questo libro di Pecoraro oggi, ritrovarmi coetaneo dell’autore in molti degli stati d’animo, dei pensieri e delle visioni che descrive, mi ha riportato alle sensazioni che provavo tra gli anni Ottanta e Novanta assistendo ai film di Nanni Moretti. C’era già allora la crisi di identità della sinistra, il malessere della condizione borghese, l’ironia iconoclasta dell’intellettuale; ma essere ancora quarantenne allontanava il pessimismo e il processo di identificazione nel disagio si spegneva quando si accendevano le luci in sala. Lo Stradone invece mi fa vivere un disagio simile, ma senza conforto. Il grottesco porta i segni della vecchiaia, corda che risuona costante per l’intero romanzo.
Solo mestizia e pessimismo, rabbia e fallimento? No, perché nel romanzo c’è un valore ricorrente che viene presentato come sigillo indelebile. E’ la memoria dell’origine di questo insediamento: montagne di creta, fornaci di mattoni e un villaggio popolato da una comunità di lavoratori. Sono i fornaciari, sfruttati così come ci raccontano i libri che parlano del lavoro in fabbrica nei primi del Novecento, ma animati dal desiderio di lotta e riscatto e dalla aspirazione ad un comunismo che l’inattesa visita del compagno Lenin gli mostra possibile. Tra adesione, rimpianto e speranza, l’uomo ripercorre la storia delle fornaci come ragione vera ed unica per cui non riesce a fuggire dallo stradone, quasi fosse in attesa di un miracoloso ritorno del passato. Un passato simbolicamente evocato, nelle ultime pagine del libro, dal rinnovato svettare tra strade, palazzine e supermercati dello Stradone di una antica ciminiera di fornace.
Non avendo letto il libro … non mi resta che dire che scrivi molto bene e che mi hai messo voglia di leggerlo!
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Grazie, ma non ti sei firmato (a), non so chi sei.
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