Generalmente le arti si esprimono e comunicano emozioni attraverso un unico fenomeno sensoriale: la vista nella maggiore parte dei casi e l’udito nella musica. Recentemente nuove forme artistiche, come l’installazione o la performance sono riuscite a mettere insieme vista e udito. Ma solo al teatro e al cinema appartiene la complementarità delle sensazioni. Nato muto, il cinema di finzione dapprima ha impiegato la musica come sottolineatura o come contrappunto per esaltare le emozioni. E ci è riuscito benissimo con i capolavori del muto accompagnati da musica dal vivo. Poi si è perfezionato con il doppiaggio, i “rumoristi” e musiche appositamente composte. Ricordo il maestro Morricone, in una intervista, raccontare che era solito improvvisare dal vivo su pianoforte guardando il film da musicare e solo dopo trascrivere su spartito. Infine il cinema ha adottato la presa diretta con i nuovi artifici sonori del digitale.
Raramente però l’attenzione dello spettatore si concentra su suoni e rumori. Ancora più raramente il suono riesce ad esser protagonista del racconto, più importante, più forte, più doloroso dell’immagine. E’ il caso di All This Victory, del regista libanese Ahmad Ghossein, presentato quest’anno al Festival di Venezia e a Roma al Medfilm Festival, un film coraggioso e innovativo. E non sono i suoni sinistri di mostri spaziali o la musica ansiogena dei racconti thriller, ma le voci di una lingua straniera, i passi di un soldato invisibile, gli spari di un mortaio, la turboelica di un elicottero, sino al sordo esplodere di bombe sempre più vicine. Sono questi i protagonisti di un film che ci racconta il terrore di chi sente e non vede, reso cieco dalla imprevedibile prigionia in quello che sembrava un rifugio sicuro. E’ la cecità della guerra, che non distingue tra buoni e cattivi, così come come i personaggi del film non riescono a distinguere i soldati amici dai nemici.
All This Victory è un “film di regia”, nel senso che interpreta una sceneggiatura semplice, quasi elementare, studiando minuziosamente i comportamenti dei protagonisti, quasi sempre vicini, che si spostano con movenze corali guidati dai suoni della guerra, dentro le mura di un casolare decrepito che li protegge dal quel “fuori” di odio terreno indecifrabile, smentito solo dal silenzioso sguardo verso l’azzurro del cielo