Per sopravvivere al soffocamento del lockdown pandemico si sono determinate accelerazioni di novità nel lavoro, nella comunicazione e nella fruizione del tempo libero che sarebbero probabilmente sopraggiunte nei prossimi anni. Se eravamo abituati all’acquisto di beni e servizi on line, non lo eravamo a presentare libri in rete, a celebrare eventi, fare riunioni di lavoro o discutere di politica con lo strumento del meeting virtuale. Il cinema, già in sofferenza per la diffusione della TV on demand, è entrato in crisi sia nella fase della produzione che in quella della distribuzione. E allora film pensati per le sale escono sulle piattaforme in streaming.
Così, inaspettatamente, sono usciti su SKY due film in prima visione, entrambi italiani, entrambi sul rapporto genitori-figli, faticoso, come si sa, soprattutto in Italia: Figli, di Giuseppe Bonito, su sceneggiatura di Mattia Torre, scomparso prima dell’inizio delle riprese; e Favolacce, di Damiano e Fabio D’Innocenzo, premiato per la sceneggiatura al festival di Berlino. Entrambi si svolgono a Roma, ed entrambi hanno in comune il problema della gestione dei figli e il malessere che annebbia gli affetti familiari.
Ma l’affinità finisce qui, perché il primo si sviluppa nel cuore della città, raccontando di un ceto medio in difficoltà economica, ma sostenuto da una cultura borghese un po’ trendy, tipica dei figli della generazione nata e cresciuta nel dopoguerra; il secondo in quella che possiamo definire la “periferia diffusa” di Roma, lontana chilometri da un centro mai frequentato, nella quale le magre risorse economiche vengono indirizzate agli stereotipi del benessere borghese: casetta unifamiliare con giardinetto e barbecue, e un simulacro di piscina.
I due film non solo descrivono diverse condizioni socio-culturali, ma sono indirizzati ad un target diverso: il primo, facile e divertente, rientra nella tradizione della commedia all’italiana, il secondo difficile e sperimentale, affonda nella piaga della emergenza sociale, come peraltro i fratelli D’Innocenzo avevano già fatto con La terra dell’abbastanza. In questo senso Favolacce richiede un paio di riflessioni.
Innanzi tutto la periferia di Roma. Scontato che non sia quella delle borgate celebrate da Pasolini, dove ancora esisteva una sofferente ma dignitosa dimensione sociale, ma neppure quella delle più recenti storie cinematografiche sui disagi urbani, come La Scuola (Lucchetti), Questioni di Cuore (Archibugi), Sole Amore Cuore (Vicari), Lo chiamavano Jeeg-Robot (Mainetti), Fiore (Giovannesi) e molti altri, sino al Sacro GRA di Gianfranco Rosi, che traccia il perimetro di Roma lungo il Raccordo Anulare. Oggi la periferia romana è oltre il Raccordo, lungo la costa, a Torvaianica, Ostia e Fiumicino, ma ancor più negli insediamenti costruiti a pelle di leopardo, legali, ma senza progetto, laddove la parvenza di città si diluisce nella campagna. E questa è la periferia di Favolacce. Si vive in una “non città”, ma neppure in campagna, convinti di andare a Roma quando si raggiungono gli intensivi di Spinaceto, senza mobilità e relazioni esterne, chiusi in un microcosmo familiare ereditato da culture suburbane che hanno vissuto indigenza e disagi.
E poi i figli. I figli sono al tempo stesso una risorsa e un problema, perché su di loro viene caricata l’illusione di una vita migliore, ma anche la paura che non abbiano la forza di uscire da quella presente. E loro, i bambini, accettano questa pesante responsabilità, studiano e sono bravi a scuola, si muovono in branco cercando di essere o sembrare adulti, colgono il piacere di una vita aperta, si aggrappano a momenti di gioco e di gioia. Ma la responsabilità è troppo forte, e qualcuno teme di non farcela, forse comprende che la propria condizione è come quella piscina di gomma che toccata da una lama si sgonfia in pochi secondi, e diventa fango. Allora capisce che da questa realtà non si fugge, come fare? Accettarla rifugiandosi nella propria innocenza, come si fa con una bella favola? Oppure distruggerla, come in una brutta favola?