(situazione attuale e progetto di Rem Koolhaas, 2008)
Il Decreto Semplificazioni entra anche nel merito di un tema che riguarda le trasformazioni urbane. Personalmente sono convinto che le procedure di progettazione, approvazione e appalto di opere edilizie, sia private che pubbliche, debbano essere semplificate per restituire fiato ad una trasformazione e modernizzazione urbana che in Italia è paralizzata da burocrazia, pregiudizi ideologici e veti incrociati. In un primo momento il Decreto, a proposito delle leggi regionali di “Rigenerazione urbana”, liberalizzava gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti, condizionandoli solo nelle zone definite “A” dai PRG e quindi sottoposte a vincolo come bene storico e ambientale. In sede di discussione al Senato è stato invece approvato un emendamento che ha disposto tre nuove condizioni:
- La prima è l’estensione del vincolo ad aree urbane “assimilabili alle zone A in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e in ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico”
- La seconda è che in queste aree “gli interventi di demolizione e ricostruzione sono consentiti esclusivamente nell’ambito dei piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale, fatte salve le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti e i pareri degli enti preposti alla tutela.”
- La terza è che comunque per gli immobili in queste aree gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria.”
L’emendamento ha acceso polemiche tra architetti e costruttori favorevoli alla liberalizzazione da una parte e storici e urbanisti orientati alla tutela assoluta dall’altra. L’una o l’altra posizione ha avuto l’appoggio anche di associazioni civiche e ambientaliste.
Prima di entrare nel merito occorre spiegare cosa è la “Rigenerazione urbana”. Il concetto urbanistico di rigenerazione urbana si è diffuso una ventina di anni fa un po’ in tutto il mondo, come risposta al frenetico consumo di suolo, alla necessità di contenere il fabbisogno energetico degli edifici e in definitiva a riqualificare parti degradate e abbandonate delle città. Insomma occorreva costruire sul già costruito anziché occupare superfici libere. Teorici dell’architettura e dell’urbanistica, progettisti e imprenditori hanno iniziato a discutere di come trasformare intere parti di città quando periferiche o prive di valore storico e architettonico, che si sono mostrate improprie funzionalmente, o comunque non più rispondenti alle necessità e qualità della città contemporanea. Successivamente il termine “Rigenerazione urbana” è stato applicato anche alla scala del singolo edificio, quando il Governo Berlusconi nel 2009, per fare fronte alla crisi dell’industria edilizia approvò una legge delega denominata “Piano Casa”, che demandava alle Regioni la procedura di legge per interventi di ampliamento e demolizioni parziali o totali con ricostruzione e aumento di volumetria. Naturalmente restavano i vincoli legati alla tutela dei beni storici e culturali.
Riferendoci a Roma, occorre ricordare che la L.R. 7/2017 – Rigenerazione urbana – della Regione Lazio, facendo riferimento al PTPR, tutelava solo l’area del centro storico di Roma compresa all’interno delle Mura Aureliane. Non includeva invece quanto previsto dal PRG del 2008 che aveva ampliato il vincolo ad altre aree (l’intero Municipio II, più altri complessi edilizi come quelli del quartiere Testaccio, Prati-Mazzini, Città giardino, ecc… citate nella “Carta della qualità” e sottoposte alla tutela della Sovrintendenza capitolina). Insomma non erano previste altre limitazioni all’applicazione della legge se non quelle indicate nel PTPR . Questo ha consentito l’attuazione di interventi di demolizione di villini e palazzine degli inizi del secolo XX alterando tessuti edilizi di memoria storica. Ne sono conseguite aspre polemiche in sede cittadina e regionale. Nel Decreto Semplificazione, tra le altre disposizioni per abbreviare i procedimenti amministrativi, è stata colta l’occasione per precisare meglio le condizioni di applicazione delle leggi regionali di Rigenerazione urbana. Il problema era delicato, perché da una parte era necessario rendere più semplici e veloci i procedimenti edilizi, dall’altra evitare il ripetersi di interventi speculativi a danno del patrimonio edilizio di memoria storica, quali sono, ad esempio a Roma, i complessi residenziali del tardo Ottocento e dei primi decenni del XX secolo.





Allora, ai fautori della liberalizzazione degli interventi relativi alle Leggi Regionali di Rigenerazione urbana io pongo due quesiti:
- Non ritenete opportuno che restino integre oltre ai centri storici anche le parti urbane che rappresentano la memoria più recente di una modernizzazione urbana, nel caso di Roma, la prima periferia di Roma Capitale, oggi fascia intermedia tra il nucleo storico e la città contemporanea?
- Pensate realmente che la modernizzazione urbana si fondi sulla demolizione e ricostruzione di un singolo edificio senza un progetto di riqualificazione generale?

E invece ai fautori della conservazione (o ricostruzione integrale) degli edifici compresi in queste zone io chiedo:
- Nelle zone “A” e assimilate, ritenete sia giusto conservare o ricostruire l’esistente anche nel caso di edifici che non corrispondono al periodo storico di formazione della parte urbana, oppure ampiamente compromessi da superfetazioni o aggiunte?
- Non pensate che ricostruire un edificio demolito ripetendone esattamente non solo la sagoma ma anche i prospetti, e quindi il linguaggio architettonico, sia un falso storico culturalmente e scientificamente improponibile?
A mio avviso da una parte il principio di vincolare i processi di demolizione e ricostruzione nelle aree centrali tutelate attraverso uno strumento intermedio è giusto, perchè restituisce alla rigenerazione urbana il suo senso originale riferito non al singolo edificio ma ad una intera parte urbana, meglio se periferica. Sempre riferendoci a Roma occorre ricordare che i principali interventi di trasformazione urbana che hanno fatto seguito al PRG del 2008 si sono fondati su piani generali convenzionati con il privato, come, ad esempio, l’intervento a via Guido Reni e quello della Dogana vecchia a San Lorenzo (entrambi di CDP); quello, avviato ma poi bloccato, del Recupero degli ex Mercati Generali all’Ostiense, quello della Stazione San Pietro (fermo da anni), altri oggi in fase di studio a San Lorenzo, ecc… D’altra parte, però, la nuova formulazione, che richiede piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati di competenza comunale, apre interrogativi e preoccupazioni sui modi e tempi con i quali la tradizionale lentezza e farraginosità della “macchina comunale” in futuro progetterà ed approverà questi piani di recupero e/o riqualificazione urbana.
Inoltre la formulazione della norma per le zone assimilate alle zone omogenee A è ambigua e rischia di essere troppo rigida: va bene evitare aumenti di cubatura (in quanto incentivo alla speculazione), e va bene mantenere le caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, ma chiedere il rispetto assoluto di sagoma e prospetti mi sembra eccessivo e culturalmente discutibile quando l’edificio non esprime una reale qualità architettonica e non è espressamente vincolato. Ma cosa si intende per caratteristiche tipologiche e morfologiche di edifici o gruppi di edifici? E cosa significa rispettarle?
Una prima caratteristica tipologica è il sistema distributivo degli alloggi. Prendiamo come esempio una casa di abitazione collettiva. Può essere un villino o palazzina (secondo il numero dei piani) circondato da un giardino privato condominiale, con uno o più corpi scala che servono appartamenti ai vari piani; oppure può essere un blocco allineato sul fronte stradale e interamente circondato da strade, che quindi coincide con l’intero isolato urbano; in questo caso oltre a disporre di molti corpi scala lungo il perimetro l’edificio generalmente è fornito di corti o cortili interni per dare luce alle stanze che non si affacciano su strada. Un’altra caratteristica tipologica è data dall’insieme degli elementi architettonici: ad esempio piani terra con negozi oppure no, tipo di copertura (piana o a tetto), balconi o terrazze, ecc… Anche materiali e colore sono caratteristiche tipologiche, ecc… Sono invece caratteri morfologici innanzi tutto quelli dimensionali, dunque superficie a terra, altezze e volume, ma soprattutto la ripetitività del tipo e cioè la possibilità che si costituisca un sistema omogeneo di edifici relazionati tra loro, ovvero una parte urbana conclusa e definita nel suo insieme. Quindi non una ripetizione di edifici uguali, ma un complesso di edifici che hanno caratteristiche simili. Caratteri tipologici e morfologici insieme definiscono la forma dell’architettura urbana. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso il dibattito architettonico nazionale e internazionale si è soffermato sulla città storica e in particolare proprio su quelle parti urbane costruite a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

di Lotus International del 1982

Esquilino a Roma
(da uno studio del 1983)
La versione approvata in senato escluderebbe anche i piccoli interventi di addizione moderna alla preesistenza che costituiscono motivi architettonici interessanti di integrazione funzionale e formale, come è possibile verificare in molte recenti realizzazioni architettoniche nazionali e internazionali di qualità. Per intendersi, interpretando letteralmente questa disposizione anche molti interventi di restauro degli ultimi decenni non sarebbero stati consentiti: Carlo Scarpa, ad esempio, non avrebbe potuto ristrutturare il Museo di Castelvecchio a Verona (fig. a sinistra), né a Firenze sarebbe possibile realizzare oggi la pensilina di accesso di Isozaki agli Uffizi (fig. a destra).


CONCLUSIONI
- Non c’è dubbio che le leggi regionali di “Rigenerazione urbana”, soprattutto nelle città storiche (come Roma, ad esempio) abbiano causato o possano causare danni alle aree caratterizzate da sistemi edilizi tipologicamente e morfologicamente omogenei, di memoria storica più recente (a cavallo tra il XIX e il XX secolo), che non rientrano nelle tradizionali zone “A” dei Piani Regolatori.
- È anche vero però che questi complessi edilizi sono spesso inclusi in territori più ampi contaminati da edilizia di cattiva qualità, spesso esito della caotica espansione edilizia che ha fatto seguito all’ultimo conflitto mondiale (anni Cinquanta-Settanta).
- Dunque era necessario trovare uno strumento intermedio che distinguesse i sistemi edilizi di testimonianza storica da tutelare rispetto alla edilizia diffusa senza valore.
- Un “Piano Particolareggiato di Rigenerazione urbana” (obbligatorio nell’emendamento di cui si discute) può essere uno strumento adatto per le aree che il decreto legge definisce assimilabili alle zone “A”, “in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e in ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico”.
- Ma è poco chiara la prescrizione del DL sugli interventi di ristrutturazione edilizia riferita agli “immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali … o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico…”, secondo la quale, in caso di ripristino di edifici crollati o demoliti, si prescrive l’obbligo di rispettare sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente. Infatti non si capisce se questo punto si riferisce ai singoli edifici da tutelare e quindi da ristrutturare o riedificare nel rispetto integrale dell’edificio preesistente, oppure all’intera zona A e assimilabile. La seconda ipotesi paradossalmente fisserebbe il vincolo anche per edifici spuri o estranei al complesso edilizio vincolato. Dunque va presa per buona la prima interpretazione, ovvero il rispetto integrale dei soli edifici o complessi di edifici per i quali esiste una specifica tutela.
- Allora il Piano Particolareggiato dovrebbe essere obbligatoriamente redatto dal Comune entro un termine prefissato e orientato solo ad individuare e normare i singoli edifici o complessi di edifici (comparti) da assimilare alle tradizionali zone” A”. La semplificazione dovrebbe ridurre al massimo i tempi di approvazione (con un solo passaggio in Sovrintendenza comunale e senza approvazione regionale)
- In definitiva questa legge con il suo emendamento approvato in Senato è il risultato di un compromesso tra una visione ideologica e conservatrice che vede nell’intervento architettonico contemporaneo sempre il “male” e una, pragmatica, che lascia ampia libertà all’iniziativa privata rischiando fenomeni puramente speculativi.
- Ancora una volta il compromesso ha come esito una legge ambigua e male scritta che ha creato confusione e discordia e sarà difficile applicare.