I limiti del surreale

nel film Lo chiamavano Jeeg Robot.

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Il cinema è invenzione e fantasia. Così il surreale ha una lunga tradizione avviata con i maestri del muto, Keaton e Chaplin, proseguita con Buñel e Jodorowsky, Cronenberg e Lynch, sino ai recenti raffinati film di Andersson (Un Piccione seduto su un ramo…) e di Von Dormael (Dio esiste e abita a Bruxelles). Similmente il cinema ha celebrato la narrazione oltre il reale con i supereroi del fumetto, la fantascienza e i fantasy. Ma il cinema è anche rappresentazione della realtà, ora leggera, complice e sentimentale, ora cruda, critica e drammatica. Come è anche ironia, paradosso e gioco. Grandi autori hanno sperimentato contaminazioni tra i “generi”, mettendo insieme o alternando realismo e ironia, violenza e paradosso. Tarantino e i Fratelli Coen ne sono oggi la massima espressione.

Più difficile è coniugare il reale estremo con la fantasia surreale e pochi ci hanno provato, tra cui, oggi, Gabriele Mainetti con gli sceneggiatori Guaglianone e Menotti. Il tentativo funziona poco, anche per alcuni deboli passaggi di sceneggiatura e regia. Lo spettatore resta più sorpreso che coinvolto, in una altalena di situazioni e tonalità che oscillano tra l’estremo realismo e il disincanto fumettistico, con il risultato di annullarsi a vicenda. Per quanto ammirevole e coraggioso dal punto di vista della sperimentazione, il film risulta confuso e dispersivo. Piace però ai giovani e giovanissimi, proponendosi come un imprevedibile film cult . Se non altro, proprio per questo va visto.


			

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