(articolo pubblicato anche su L’Italia Che Verrà – litaliacheverra.it)
C’è una tela molto bella del preraffaellita John Everett Millais che rappresenta la Ofelia amata da Amleto distesa nell’acqua di un ruscello. Prigioniera della sua bellezza, travolta da intrighi e follie, incapace di reagire, Ofelia si abbandona al suo destino lasciando che il corpo, le vesti e i fiori che porta con se si disperdano nel fluido. Guardo il dipinto: quella bellezza, quel gelido abbandono con gli occhi socchiusi e le braccia aperte mi fanno pensare alla città di Roma, perché anche Roma appare stremata dalla sua bellezza e immersa in una liquida prigione di splendore.
Come Ofelia è prigioniera della sua vita, così Roma è prigioniera della sua storia. Le memorie di duemila anni di grandezza e declino, di trionfi e sconfitte si sono sedimentate e sovrapposte, ma tutte convivono, come commenta Sigmund Freud nel suo Disagio della civiltà, in modo tale che guardandola dall’alto del Palatino si possano osservare contemporaneamente presente e passato, quasi Roma fosse una entità psichica in cui nulla di ciò che un tempo ha acquisito esistenza è scomparso. Il deposito della storia è nell’inconscio di ogni romano, forse di ogni visitatore, non più interessato a decifrarlo né a capirne le ragioni , ma solo a goderlo. Roma che non cambia mai, rinchiusa in un eternità fuori dal tempo, percepita oggi tale e quale a quella del passato.
Eppure le sue glorie si sono trasformate in catene. Più o meno negli stessi anni in cui Millais dipingeva Ophelia, Baudelaire definiva il concetto di modernità come “il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’immutabile”. “Affinchè ogni modernità acquisti il diritto di diventare antichità” – scriveva – “occorre capirne la bellezza misteriosa che la vita umana vi immette”. Per il poeta francese è proprio la metropoli, sia con gli aspetti immateriali, e cioè la qualità della vita, sia con quelli materiali, ovvero le forme costruite , il luogo in cui la modernità, nel bene come nel male, si presenta con evidenza. Tutto questo a Roma non è concesso. A Roma non è consentito il transitorio, il fuggitivo, il contingente, ma solo l’immutabile. Roma esiste a metà, perché le è negata la modernità. Anche per questo Roma è architettonicamente ed urbanisticamente irrisolta, e lo potrebbe restare a lungo se non sarà liberata da un equivoco culturale che ha catturato non solo i suoi cittadini, ma anche gran parte della componente civica e intellettuale che dovrebbe curarne il destino: ogni sapere difende il proprio campo in una visione sempre analitica e parziale, mai sintetica ed olistica.
Gli archeologi, ad esempio, sembrano ossessionati dallo scavo e dalla conservazione, quasi gelosi dei rinvenimenti. Talvolta si scava, si rileva, si fotografa e poi si richiude. Spesso contrari ad una diffusione popolare e di massa delle conoscenze archeologiche, esercitano un potere di veto rispetto ad ipotesi di modernizzazione urbana non sempre motivato e concorde: a volte rigido, altre volte elastico. Molti storici, insieme ad alcuni urbanisti, hanno occhi e conoscenze solo per la Roma “immutabile”. Difendono giustamente l’integrità del centro antico, dei monumenti e dei tessuti storici consolidati, ma, dietro l’alibi della tutela e dell’interesse pubblico, nascondono una visione conservatrice se non addirittura reazionaria della città. Vorrebbero estendere concettualmente all’intero complesso metropolitano la loro idea di Roma, tanto da demonizzare la costruzione di edifici alti per arrivare al paradosso di teorizzare una Roma solo orizzontale sino alle estreme propaggini delle periferie. Architetti ed artisti, per quanto orientati alla trasformazione urbana e alla ricerca espressiva, si scontrano sull’idea del bello, oscillando tra tradizione e innovazione e anteponendo autoreferenzialità ed individualismo ad una visione ampia e collettiva.
E la politica, come si muove in questa confusione di visioni obiettivi e metodi? Quella peggiore si suddivide in due strade: una parte scende senza indugi a compromessi con i poteri tradizionalmente forti della industria edilizia romana; l’altra parte, con l’ossessione del consenso elettorale e l’alibi di evitare il malaffare, preferisce rinunciare a qualunque impegno, lasciando che Roma agonizzi nella sua ordinarietà. Ma anche la politica migliore fatica a costruire reali ipotesi di trasformazione urbana, frenata dai veti incrociati dei suoi intellettuali e dubbiosa rispetto alla possibilità di sanare la contrapposizione tra l’interesse economico dell’investitore privato e i diritti della collettività. Così, in realtà, si conserva lo stato di fatto, lasciando campo libero alla speculazione.
Roma va liberata dalle catene che le impediscono di diventare una città moderna come le altre grandi capitali europee. Roma deve mantenere la sua grande bellezza, ma deve anche trovare una sua modernità. Occorre ripartire da tre fattori.
Il primo è una riflessione sulla stagione dei grandi cambiamenti compresi tra la metà degli anni Novanta e la metà degli anni Duemila. In circa dieci anni, furono avviati a Roma grandi concorsi che avrebbero portato alla realizzazione di moderne opere pubbliche, ma soprattutto in quegli anni è stato ristudiato il Piano Regolatore caratterizzandolo non solo con dati quantitativi (superfici, cubature, standard, ecc…) e vincoli (indici, aree di rispetto, destinazioni d’uso, ecc…) ma anche qualitativi: sono gli Ambiti di programmazione strategica che costituiscono situazioni territoriali considerate particolarmente importanti ai fini della riqualificazione dell’intero organismo urbano (Ambito del Tevere, del Parco Archeologico dei Fori – Appia Antica, delle Mura, del Flaminio, della Cintura ferroviaria, ecc…). Purtroppo non tutto è andato bene: il salvataggio di alcune aree di pregio ambientale compromesse dal vecchio PRG ha portato ad una compensazione di superfici edificabili verso l’esterno del Raccordo Anulare con problemi di emarginazione sociale e mobilità; mentre le aree strategiche sono state compromesse da interventi impropri e comunque frenate dalla sopravvenuta crisi economica. Alcune importanti opere pubbliche sono rimaste incompiute con danno economico e di immagine. Ma occorre ripartire da quegli anni, valorizzando le idee e correggendo gli errori.
In attesa di un intervento politico di ridisegno delle autonomie amministrative di Roma città metropolitana e dei relativi municipi (proposte Tocci, Morassut, ecc…) il secondo fattore da cui ripartire per la modernizzazione di Roma è la ridefinizione a livello nazionale del ruolo di Città Capitale. Per arrivare allo scopo, oltre ad una decisa azione parlamentare è necessario un patto d’azione pubblico-privato. E’ una illusione pensare di redimere la città combattendo la rendita. Piuttosto questa va circoscritta e regolata. Sulla base di leggi speciali andrebbe firmato un protocollo di intesa, con l’avallo della autorità politica centrale per intervenire su Roma Capitale regolando sia i finanziamenti nazionali sia le modalità del contributo e dell’azione del privato.
Il terzo fattore di modernità cui fare riferimento è l’attenzione al grande lavoro di analisi e progettazione che le università romane stanno conducendo sul campo. I dipartimenti di Analisi e Progetto (DIAP) e Civile Edile Ambientale (DICEA) della Sapienza, il Dipartimento di Architettura di Roma3 e molti corsi di laurea hanno pubblicato ricerche, saggi e interi volumi, redatto soluzioni urbanistiche ed architettoniche che, seppure nei limiti della libertà di ricerca propria di uno studio universitario, suggeriscono soluzioni innovative ma praticabili sia per la modernizzazione della città consolidata che per la soluzione dei problemi della immensa periferia romana. Oggi la maggior parte di questi lavori è chiusa negli archivi dei dipartimenti e osservata con diffidenza dalla attuale amministrazione.

Molto bella e poetica la similitudine tra Roma e il quadro di Millais.
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Grazie, amico mio
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Caro Umberto mi fa impressione quanto mi trovi d accordo con te (e non solo per questo intervento) nonostante pertanto tempo non si abbia avuto occasione di confrontarci. Conosco pochissimo le periferie vere su cui quindi non mi sono fatta una opinione. Ma sulla Roma storica penso che innanzitutto si debba partire dalla percezione che di tratta di un palinsesto e che come tale vada trattata anche negli indispensabili segni di attualizzazione. Io sono furente con i vari Vittorio Emiliani e company (che conosco personalmente e frequento sempre meno) . Con i Montanari e i Settis (come sopra ) mentre mi sembra un’ idea sacrosanta la messa in campo dei tanti studi effettuati nelle università romane per trarne suggerimenti possibili. Scusa. Sono stata troppo lunga. Ma il tema mi brucia
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Non sono un anonima sono Orietta Rossi e non so comunque funzionano i blog. Ci provo
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I nomi che hai fatto sono proprio quelli di coloro che negano la modernità a Roma. D’accordo anche io con te
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