Sinistra in frantumi, domande e risposte

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E’ passato un anno dalle elezioni politiche del 2018 che hanno segnato la disfatta della sinistra e consentito la formazione di un governo di coalizione tra populisti ed estrema destra. Naturalmente il primo responsabile è il partito più rappresentativo della sinistra per consensi e per storia, il Partito Democratico. Ma vorrei tornare su alcune di queste responsabilità, immaginando di rispondere alle domande che comunemente vengono poste.

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Renzi è stato il primo responsabile della discesa verticale dei consensi al Partito Democratico?

Vero, se consideriamo l’errore gravissimo di trasformare un referendum su riforme costituzionali ampiamente condivise in un referendum sulla propria persona come Presidente del Consiglio. Una presunzione che ha alterato le finalità stesse del referendum favorendo la formazione di una contraddittoria e ampia maggioranza oppositiva. Tanto più è vero se consideriamo la caratteriale invadenza ed insofferenza di Renzi per un dialogo interno al partito. Meno certe invece le sue responsabilità per quanto riguarda la conduzione del governo e di quello successivo di Gentiloni, se non per le ragioni che vediamo più avanti.

Il Partito Democratico non è stato capace di rinnovarsi? Oppure: il Partito Democratico si è rinnovato troppo?

Le due ipotesi si smentiscono reciprocamente: il rinnovamento dei quadri ad opera di Renzi c’è stato; il rinnovamento dei contenuti molto meno e comunque è stato alterato dalla formazione di un gruppo dirigente sottomesso al suo “capo”, estraneo all’incontro tra sinistra cattolica e sinistra socialista, che era la ragione prima della sua fondazione. La celebrazione della rottamazione è stato un pessimo esempio di rottura con un passato fatto non solo di persone ma anche di valori.

Il Partito Democratico, erede della tradizione del Partito Comunista Italiano, si è spostato a destra?

Le accuse di essere un “partito di destra” in genere provengono da persone o gruppi (arroccati su presunzioni ideologiche) che cercano spazi autonomi di consenso. In un momento storico in cui la sinistra in tutto il mondo è intrappolata nella revisione dei propri indirizzi ideologici, assistendo inerte a movimenti e partiti che sfuggono ad una collocazione precisa tra sinistra e destra, sembra difficile definire quanto questo partito abbia perso della sua tradizione. D’altra parte una “sinistra di governo” deve fare i conti con le contraddizioni di un sistema economico fondato sul liberismo della produzione e del mercato e per rilanciare il lavoro deve puntare sugli incentivi alle imprese. Certamente in questo campo il Partito Democratico è stato costretto a passi falsi che ne hanno penalizzato il consenso.

Il Partito Democratico, dopo 5 anni di governo non ha fatto autocritica?

E’ solo parzialmente vero. Seppure in modo individuale e con accenti diversi, l’ammissione degli errori c’è stata. Le considerazioni degli esponenti del partito sono tutte riconducibili alla mancata opportunità offerta dalla ripresa economica per restituire fiducia ad un paese da anni oppresso da una crisi durissima. La forbice delle diseguaglianze era cresciuta insieme alla disoccupazione, i provvedimenti in favore del lavoro e della povertà erano stati insufficienti e frenati dal necessario contenimento della spesa pubblica. Già prima delle elezioni politiche, la sottovalutazione del malessere nei territori periferici (in senso ampio) aveva determinato sconfitte elettorali a scala regionale e comunale, che non furono percepite come grave campanello di allarme.

Il Partito Democratico doveva accettare la proposta del M5S di un accordo di governo?

Qui le opinioni restano diverse. Chi sostiene che il PD doveva acconsentire all’accordo di governo ha ragione per quanto riguarda la conservazione di alcuni valori relativi ad immigrazione ed accoglienza che Salvini al governo sta distruggendo, ma proviamo a immaginare un “contratto di governo” con il M5S, partito largamente maggioritario: a parte i provvedimenti tecnici e di routine, il PD avrebbe dovuto accettare un reddito di inclusione trasformato in reddito di cittadinanza che costava 7 miliardi, la cancellazione della legge Fornero che andava contro il patto europeo sul contenimento della spesa pubblica, i condoni promessi dai 5 stelle ai propri elettori. Il Pd al contrario avrebbe chiesto, nei limiti di bilancio, provvedimenti per le imprese ed il lavoro, investimenti sulle infrastrutture (comprese TAP e TAV), razionalizzazione delle strutture per l’accoglienza e lo “Ius soli”. Sarebbe stato facile l’accordo? Io penso di no. Inoltre, partecipare ad un governo caratterizzato dagli impulsi sovranisti e dalla logica giustizialista del M5S, avrebbe non solo diviso, ma aperto un solco insanabile con la stessa sinistra radicale che oggi accusa il PD del mancato accordo. Questo senza considerare le gravissime incompetenze riscontrate oggi negli esponenti grillini nominati ministri. Immaginate cosa si sarebbe scatenato contro il Partito Democratico dopo alcune video-sceneggiate (ad esempio quella di Bonafede per l’arresto di Cesare Battisti). E anche ammettendo che l’accordo M5S-PD fosse stato possibile, si sarebbe formata in opposizione una destra, stavolta con Berlusconi e Meloni dietro a Salvini, ancora più accanita nella sua propaganda per l’odio contro lo straniero, l’insofferenza per la Unità Europea, la simpatia per Putin e i paesi di Visegrad. Una destra ancora più forte per consensi elettorali.

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Ma allarghiamo il campo e guardiamo a sinistra oltre il Partito Democratico. Liberi e Uguali era un piccolo partito (in realtà una lista elettorale) nato dalla fusione tra i fuoriusciti del Partito Democratico in conflitto personale con Renzi e la Sinistra Italiana di Fratoianni.

 L’esito elettorale di LeU è stato altrettanto negativo di quello del Partito Democratico. Tanto che non si è più trasformata in partito. Perché?

Convinti che la numerosità dei consensi dei singoli raggruppamenti potesse non solo sommarsi ma generarne altri, sono stati coinvolti personaggi di valore istituzionale ma poco accreditati nel consenso popolare. Ma soprattutto, per attrarre gli elettori di sinistra, Liberi e Uguali ha messo in atto una strategia elettorale che aveva come principale bersaglio proprio il Partito Democratico. Il risultato è stato quello di attrarre molto poco e di trasformare il dissenso verso il PD nel consenso al M5S, contribuendo al suo successo elettorale.

E’ mancato a Liberi e Uguali un coerente indirizzo politico, come sostengono molti suoi simpatizzanti?

Anche qui, vero in parte. Vero se si considera la non risolta compatibilità tra i fuoriusciti dal PD che erano stati i protagonisti della esperienza di centrosinistra nei lunghi anni di competizioni elettorali contro Berlusconi, e il gruppo di Sinistra Italiana che aveva invece le sue radici nella Rifondazione Comunista di Bertinotti. E’ invece meno vero, se si tiene conto del peso irrilevante che le ideologie dei partiti oggi hanno su un corpo elettorale sempre più in balia di emozioni viscerali e transitorie.

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E infatti, proprio a partire da queste emozioni, forze giovanili fortemente motivate dal punto di vista ideologico, provenienti da centri sociali, gruppi della sinistra antagonista e formazioni neomarxiste, si sono aggregate attorno ad un’altra lista elettorale, chiamata Potere al Popolo. Ma la sua consistenza nelle elezioni politiche è stata minima e non hanno raggiunto il quorum.

Potere al Popolo può rappresentare una alternativa reale della sinistra nell’attuale panorama politico?

Non credo proprio, anche se nei sondaggi elettorali di questi mesi appare in grado di attrarre consensi dal fallimento del progetto politico di LeU. Questo piccolo e velleitario partito, che si ispira ancora al marxismo, mi ricorda l’esperienza di Democrazia Proletaria nato sull’onda dei movimenti giovanili dei primi anni Settanta (Manifesto, Lotta Continua, Avanguardia Operaia), con una forte carica antagonista rispetto al Partito Comunista Italiano. Democrazia Proletaria, nonostante contasse sull’appoggio di un giornale importante come il Manifesto, restò ai margini delle battaglie politiche di allora, poi si dissolse.

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Ma torniamo all’incipit di questa riflessione. C’è un consenso largamente maggioritario degli Italiani nei confronti di un populismo dai due volti, uno, vittorioso alle elezioni del 2018, che ostenta intenzioni che potremmo anche definire di sinistra sociale, l’altro vittorioso negli attuali sondaggi, che invece mostra ferocia da destra estrema. Entrambe le componenti sono ossessionate dal mantenimento del consenso popolare e su questa misurano le loro intenzioni di governo, ponendosi in competizione tra loro. La prima però è perdente rispetto alla seconda, che ormai è diventata egemone. Questa situazione, con l’aggiunta di impreparazione e incompetenza politica, sta causando decadimento etico, economico e culturale. Per molto meno negli ultimi decenni del XX secolo ci sarebbero state centinaia di migliaia di persone in piazza. Oggi invece la maggioranza degli Italiani li vota e, secondo i sondaggi, continuerà a votarli. E allora ci poniamo ancora due domande.

Quale è la forza del populismo giallo-verde che ci governa?

Su questo, personalmente – ma ormai lo dicono i tanti – non ho dubbi. La loro forza è nell’avere capito molto presto che gli strumenti di lotta politica stavano cambiando. Non è vero che il Movimento 5 stelle e la Lega vincono perché sono tra la gente. Tra la gente ci vanno dopo, per raccogliere tutto quello che seminano nella propaganda digitale che diffondono mistificando con tutti i mezzi e su tutti i temi in cui i consensi sono più immediati. Non è un caso che, a parte poche testate (essenzialmente Il Fatto Quotidiano da una parte e La Verità dall’altra), non utilizzano la carta stampata, anzi, combattono i quotidiani considerandoli strumenti delle elite. Un tweet raduna migliaia di persone in più di un articolo di giornale, un gruppo Facebook è partecipato da molti più lettori abituali. L’informazione digitale assume un concetto semplice e lo diffonde in tempo reale; la comunicazione social rende i protagonisti della politica molto più vicini all’elettore di una intervista in televisione. Ogni attivista o simpatizzante può diventare l’avatar del personaggio politico: 100, 1.000, 10.000 replicanti del leader in tempo reale. Ogni libero cittadino può diventare protagonista della informazione/comunicazione saltando quella ufficiale. Se poi il tuo avversario politico si trova accusato di vere o presunte inadempienze verso la legge, allora questi dispositivi di comunicazione diventano micidiali perché si arricchiscono di spunti o fake news che certificano le colpe indipendentemente dalla giustizia reale. Una macchina che, sebbene abbia l’espressione più tecnologica nella piattaforma Rousseau, può funzionare anche con una equipe di una decina di persone. Sbaglia chi  usa lo strumento per lunghi monologhi, perché si ottiene molto di più addentando una salsiccia o mostrando momenti della propria intimità. Cinquestelle e Lega hanno avviato magistralmente da anni questi sistemi di propaganda, combattendo con successo i governi di centrosinistra e vincendo così le ultime consultazioni elettorali. Il Partito Democratico e la sinistra in genere è in ritardo rispetto a queste pratiche, con i circoli che organizzano ancora presidi, gazebi o volantinaggi in strada, sempre appassionati ma poco efficaci.

Ma, concludendo, quale è la causa più significativa della mancanza di una opposizione di sinistra?

Anche qui non ho dubbi: è la divisione e litigiosità tra le sue diverse componenti. Per carità, niente di nuovo, perché da sempre movimenti e partiti di sinistra si sono scontrati per affermare la propria egemonia. Anzi la pratica della “egemonia” – in senso marxista, ma soprattutto gramsciano – fa derivare dalla analisi della realtà la costruzione di un pensiero che si deve politicamente consolidare in un blocco sociale. Essendo l’analisi un processo intellettuale soggettivo, è conseguente al patrimonio di idee (ideologia) di chi la svolge. Quindi le ricadute possono essere diverse, come diverse le forme dell’agire politico. Lungi dal volere entrare in questioni complesse di ordine più filosofico che politico, va rilevato il paradosso secondo il quale il tramonto della ideologia marxista, causato dalla trasformazione dei processi di produzione della ricchezza, invece di rendere più facile la costruzione di un pensiero socialista e democratico condiviso, ha disperso non tanto le analisi della realtà quanto l’agire politico. In sostanza voglio dire questo: partiti, movimenti e gruppi di sinistra, da quelli socialdemocratici a quelli più estremi, in linea generale concordano sulla lettura delle principali contraddizioni dell’economia globale, ma non trovando più la classe sociale nella quale identificare la forza oppositiva per un rivolgimento sociale, si aprono a prassi anche molto diverse tra loro, dal riformismo alla ribellione. Tutto questo nel senso ancora nobile della questione. Ma se si aggiungono rivalse personali (la rottamazione di Renzi e l’ira degli esclusi), pregiudizi sulle persone, schemi o rigidità ideologiche, presunzioni sul tasso di sinistra delle persone, allora restano solo frantumi non ricomponibili.

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E ritorna la storica domanda: che fare?

La scadenza elettorale europea potrebbe essere l’occasione per la costruzione di una larga alleanza fondata sulla memoria storica della democrazia e del socialismo europeo, spinta verso un riformismo che sappia ridefinire il concetto di “progresso” e di “modernità” e rendere il cambiamento sostenibile nel mondo del lavoro. Questa alleanza dovrebbe confluire nel gruppo del Partito Socialista Europeo. I partiti europei che vi aderiscono, però, dovrebbero unificare alcuni paradigmi fondamentali delle loro finalità politiche in almeno quattro campi: lo statuto dei lavoratori; il sistema fiscale; i diritti civili; i fenomeni migratori. Si andrebbe così a costituire non un semplice gruppo parlamentare, ma un embrione di quell’Europa alla quale per anni, dal trattato fondativo di Roma a quello di Maastricht, avevamo creduto e che, come punto di arrivo, avrebbe dovuto aspirare ad una reale unificazione politica.

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