Testo di U.C. estratto da Ritratti urbani, Memoria e rappresentazione delle città contemporanee, a cura di Antonella Gargano e Giulia Iannucci, Artemide, Roma 2019
La metropoli dell’architetto è fatta di frammenti che si ricompongono sino a costruire una immagine unica, eppure molteplice e complessa. Attualizzando la visione di Aldo Rossi sulla città analoga disegnata con architetture estratte ed assemblate da diversi contesti storici e geografici, la possiamo chiamare una metropoli analoga. E’ dunque una visione soggettiva, volta a rappresentare un compendio di quello che si vuole ricordare. L’architetto non ha in testa la metropoli ideale, anzi è convinto che non possa esistere. Ma ha bisogno di una metropoli analoga, perché raccoglie e rappresenta il bene e il male del contemporaneo.
Allo stesso modo questo scritto nasce descrivendo un aspetto, uno solo, di 12 città del mondo agli inizi del terzo millennio. Dunque ogni metropoli viene ad identificarsi con un tema o un problema che le appartiene, anche se non ne costituisce necessariamente l’elemento fondativo e caratterizzante. Ma la lettura in sequenza può ricostruire la complessità della metropoli contemporanea, con i suoi vizi e le sue virtù.
(Le 12 metropoli compaiono nei video girati e montati dall’autore nell’arco di otto anni, i cui link sono riportati di volta in volta accanto al titolo)
L’archetipo (New York New York, 2016) – Play video New York New York
La prima metropoli del mondo, la metropoli per l’eccellenza è New York. Dopo le forti immigrazioni della prima metà del secolo scorso è diventata il riferimento dei paesi occidentali, poi di quelli in via di sviluppo, e oggi è il modello urbano delle nuove urbanizzazioni del terzo mondo. Manhattan la rappresenta con la sua griglia stradale e isolati planimetricamente regolari, la cui altezza è valutata caso per caso in funzione dell’investimento e della opportunità. Su New York è stato detto che non coincide con gli Stati Uniti e non ne rappresenta le complessità e le contraddizioni, ma è stato anche detto che rappresenta da una parte la concretizzazione metropolitana di tutti i fenomeni del mondo occidentale, dall’altra la loro proiezione nel futuro: densità, altezze, uniformità, differenze, distanze, alterazioni, profondità, in campo architettonico, artistico, musicale e culturale in genere, ma anche sociale ed economico. New York è mutevole quanto la velocità delle trasformazioni oggi governate dai nuovi sistemi di comunicazione e informazione, è metropoli che si aggiorna di continuo, è una grande fabbrica aperta di cultura contemporanea non solo nei musei e nelle gallerie, ma anche nelle strade e persino nel degrado. Tutto scorre e si connette attraverso i flussi della sua rete ferroviaria sotterranea. New York è un cantiere perenne dove, nell’apparente caos, tutto funziona secondo una logica tanto perversa quanto impeccabile, per la quale non c’è stata definizione migliore di quella che ne ha dato Rem Koolhaas, titolando il suo celebre libro su Manhattan Delirious New York.
Flussi (Tokyo 2007) – Play video Tokyo 2007
La metropoli preme su un reticolo di strade per le quali è impossibile riconoscere un ordine geometrico o urbanistico. Le strade di Tokio spesso non hanno nome né numero civico. Vicinanze, distanze, altezze, pannelli luminosi, colori, suoni, sono gli elementi di orientamento e definizione di un luogo. La gente al contrario si muove con ordine, segue percorsi prefissati obbedendo ai semafori che scandiscono il verde e il rosso: un flusso palpitante di umanità che si alterna disciplinatamente al flusso meccanico delle auto. Di notte le insegne commerciali e le immagini pubblicitarie si moltiplicano e si sovrappongono generando altri flussi umani e digitali di colori e di suoni. La stessa dinamica si ripropone sottoterra nel ritmico scorrere dei treni metropolitani che trasportano viaggiatori inanimati con gli occhi fissi sullo smartphone e le dita veloci sulla tastiera. E si ripropone anche negli spazi pubblici degli edifici dove la ridotta dimensione orizzontale delle unità abitative impone lo sviluppo in altezza di negozi e uffici. Impossibile non ritrovare nel caos regolato della Tokyo contemporanea l’avverarsi dei presagi della metropoli del futuro rappresentata da Ridley Scott nel suo Blad Runner del 1982.
Arte (Pechino, 2010) – Play video Cina, 2010
Una ragazza con lunghe trecce brune e abito rosso si esibisce davanti ad un muro lungo una strada affollata di sculture; un intagliatore con forbici e cartoncino nero ritaglia il profilo di una giovane donna in posa; una locomotiva a vapore di un treno merci è ferma sui binari sotto un carro ponte; una coppia di modelli con abiti colore viola sventola pupazzi di stoffa; un’altra modella con lungo abito rosso fuoco si muove davanti al fotografo tra edifici modernisti, silos di acciaio e macchine industriali. Su tutti svetta un gigantesco Jeeg-Robot costruito con lamiere di scarto. Siamo nel 798 Art District di Pechino, parte di un enorme complesso industriale per la produzione militare, commissionato negli anni cinquanta dalla Repubblica Popolare Cinese di Mao ad architetti della Germania dell’Est, che con lo sviluppo della città entrò in dismissione. A partire dal 2002 il complesso venne progressivamente occupato da artisti che in pochi anni riuscirono ad ottenere l’appoggio della municipalità ed il riconoscimento come parco artistico e ricreativo. Pechino è metropoli che mantiene il suo carattere di capitale di una grande e millenaria cultura, ma questo luogo, ormai celebre in tutto il mondo, meglio di tutti ne incarna la volontà di proporsi al mondo con le armi dell’arte e della cultura contemporanea.
Passato e futuro (Shangai, 2010) – Play video Cina, 2010
La metropoli colpisce di notte. A Shangai schiere di torri residenziali animate da luci-led che ne segnano le sguaiate modanature postmoderne fiancheggiano l’autostrada che porta dall’aeroporto al centro della città. I chiaroscuri e le ombre delle città europee qui non esistono, tutto è luce vivida, lineare, implacabile, anche sul cemento dei piloni e dei fianchi degli svincoli sopraelevati. Ma in centro, dall’alto della Oriental Pearl Tower è possibile notare come l’ombra nera del fiume Huangpu marchi la distanza tra il Puxi, centro storico della città collocato ad ovest, e il quartiere finanziario Pudong ad est. Due città diverse si fronteggiano e si integrano, insieme compongono uno dei più grandi agglomerati metropolitani del mondo. Sulla riva sinistra del fiume il Bund, grande viale panoramico, raccoglie le memorie dell’epoca coloniale frammiste alle eredità della tradizione, custodita per la curiosità dei turisti. Ma il Bund è anche la migliore visuale per guardare lo skyline della città contemporanea al di la del fiume. La città antica è monumentale e orizzontale, quella contemporanea è densa e verticale. Ma Shangai dimostra che il passato può coesistere con il futuro. Con il futuro, non con il presente, perché a Shangai questo non esiste, semmai esiste il temporaneo.
Verticale (Hong Kong 2010) – Play video Cina, 2010
La metropoli è verticale non solo per le centinaia di grattacieli che ne riempiono il centro finanziario o per le sgraziate torri residenziali, sparse ovunque, che sembrano originarsi per estrusione di un’unica matrice planimetrica, ma soprattutto per la eccezionale pendenza del suolo, costretto tra mare e colline in un raggio che in linea d’aria è mediamente di circa un chilometro e mezzo. La metà del suo territorio è occupato da parchi naturali e verde pubblico, eppure Hong Kong con i 7.000 abitanti per Km quadrato è la seconda città al mondo per densità abitativa (per capire, Roma ne ha 800). Un sistema di risalite meccaniche percorre la città scavandola secondo ideali sezioni trasversali che, penetrando le viscere dei grattacieli, ne svelano i segreti: distanze incredibilmente ridotte che aprono gole profonde bagnate da lame di luce, canyon artificiali nei quali si svolgono le più incredibili attività, spazi pubblici e uffici che occupano almeno i primi 15-20 piani di ogni edificio. I grattacieli appaiono quasi aggrappati l’uno sull’altro, e si inerpicano nella grande collina sino al Victoria Peak, dal quale finalmente appare l’intera gigantesca baia, con Kowloon e le 200 isole.
Brutalismo (San Paolo 2014) – Play video Brasile 2014, appunti di viaggio
Il cemento armato è il materiale con cui è scolpita San Paolo, una megalopoli di quasi 20 milioni di abitanti, della quale è impossibile riconoscere una qualsivoglia matrice urbanistica. Ma è anche il materiale che ha dato forma a rilevanti esempi di architettura urbana che si iscrivono nel linguaggio brutalista. C’è un complesso di edifici progettato verso la fine degli anni Settanta dalla immigrata italiana Lina Bo Bardi in un’area allora degradata, costituita da piccole e basse residenze ed edifici industriali in dismissione, ma che oggi rappresenta bene il carattere di San Paolo: è il SESC, un complesso destinato alla cultura e allo sport. Arte, folclore, musica, danza, gioco e sport, appartengono all’anima paulista, al desiderio di festa, svago e movimento. Tutto qui è tenuto insieme in un grande spazio pubblico, un villaggio che nasce con il recupero dei capannoni di una fabbrica dismessa e si completa con tre nuove torri, due a base quadrangolare e una cilindrica. Sono edifici duri e minimalisti, che rinunciano alla grazia in favore della austerità popolare. La rappresentazione di un presente contraddittorio che tiene insieme memorie del passato e sperimentazioni della modernità esprime una nuova bellezza, forse una metafora di San Paolo, della sua rude ma vitale trasformazione e delle sue energie.
Distopia urbana (Brasilia 2014) – Play video Brasile 2014, appunti di…
L’utopia realizzata di una metropoli dimostra l’impossibilità di progettare la città ideale della contemporaneità. Distopia, dunque, più che utopia. Disegnata per i grandi spazi e le grandi distanze, suddivisa in zone funzionali, monumentale ma dispersa, dominata dalle automobili, con gigantesche piazze deserte, ma senza marciapiedi né percorsi pedonali, Brasilia appartiene ad un immaginario urbanistico consumato nel XX secolo. I maestri del secolo scorso ci avevano creduto, memori delle grandi tradizioni di città fortificata del XV e XVI secolo; di città filosofica del XVII secolo; di città militari del Settecento e Ottocento4. Così, nonostante l’allarme della Metropolis di Fritz Lang, nella prima metà del XX secolo Le Corbusier progettava modelli urbani ideali per Algeri, Rio de Janeiro e Parigi, prima di realizzare la sua idea di città a Chandigarh. Negli stessi anni Nicolaj Miljutin cercava di interpretare la città sovietica con il suo ideogramma di città lineare; mentre Hilberseimer con i disegni per la città verticale e Wright con quelli per la città orizzontale esprimevano presagi inquietanti sulla città delle periferie. Oggi mentre si parla ancora di città ideale o smart city in termini di sostenibilità ambientale e automazione, sempre più ci si rende conto che la metropoli dell’uomo è un organismo vivente che esiste, cresce e si trasforma in quanto governato da complesse leggi interne. Possiamo studiare e progettare le sue parti e le loro relazioni, non l’insieme, perché “nei sistemi complessi l’imprevedibilità e il paradosso sono sempre presenti ed alcune cose rimarranno sconosciute”5.
Natura e architettura (Rio de Janeiro, 2014) – Play video Brasile 2014…
La metropoli si distende lungo una immensa baia sull’acqua, tra colline verdi e picchi di granito: è uno spettacolo della natura che non ha uguali al mondo. Inutile discutere o criticare l’urbanistica e l’architettura di Rio de Janeiro, perché la natura qui accetta ogni tipo di costruzione e la sovrasta, generando un paesaggio costruito nel quale le dismisure orizzontali sfidano le lunghe spiagge e quelle verticali i ripidi morros. La metropoli però appare divisa in due. Nella immensa parte nord l’edificazione riempie le aree pianeggianti e si inerpica sulle colline tra torri residenziali e incrostazioni di favelas: un curioso ribaltamento nella collocazione delle zone pregiate e zone degradate rispetto al consueto maggior valore delle aree panoramiche urbane nei paesi europei. A sud invece, dove la presenza del mare e la grande foresta della Tijuca equilibrano il rapporto natura/artificio, è possibile ritrovare un ordine urbanistico perché questo deriva proprio dalle emergenze naturali e soprattutto dalle enseade sabbiose. Le linearità curve di Flamengo, Botafogo, Copacabana, Ipanema generano analoghi sistemi edilizi che premono sul mare, scaricando su di esso la festosa abitudine carioca dell’invasione quotidiana delle spiagge trasformate in vere e proprio piazze urbane.
Moltitudini (New Delhi, 2014) – Play video North India, 2014
L’India ha un valore nominale del PIL pari a quello dell’Italia, ma l’Italia conta 60 milioni di abitanti, l’India 1 miliardo e 200 milioni. Se rapportiamo il PIL al costo della vita (PIL-PPA) il valore sale del 250%, con un tasso di crescita che si aggira attorno al 7% annuo. Per questo molti considerano l’India la terza potenza economica del mondo, dopo USA e Cina. Eppure l’India appare ancora un paese tormentato dalla povertà con disperati fenomeni di inurbamento. La sua capitale New Delhi è una città a sviluppo orizzontale di dimensioni spaventose, che equivalgono ad un rettangolo interamente costruito di circa 60 Km per 50. E’ percorsa in ogni direzione e senso di marcia da moltitudini di persone, vacche e altri animali, carretti, biciclette, tuk tuk (simili alle api nostrane), automobili e bus. Si calcola che circolino 80 milioni di veicoli con livelli di inquinamento incalcolabili. Delhi mostra come l’immigrazione e sovraffollamento a fronte di una bassa offerta edilizia determinino condizioni di grande disagio esistenziale. Delhi è la spietata metropoli che da una parte affascina il turista occidentale per la sacrale semplicità della sua religione e della sua gente, ma dall’altra svela l’ipocrisia di un mito borghese, abbattendo molti dei luoghi comuni sulla presunta determinazione di un popolo al rifiuto dei consumi e dei vizi dell’occidente.
Monumentale (San Francisco 2016) – Play video Going to California
Seppure ricca di fascino, questa metropoli californiana non è particolarmente apprezzata per le sue architetture moderne e contemporanee. Vi hanno lavorato, tra gli altri, architetti celebri come Wright, Nervi, Botta, Piano, Liebeskind, ma non emergono opere particolarmente riuscite. In compenso San Francisco ha tratto dalla sua condizione geografica – l’ampia baia lunga 90 chilometri e oggetto di contese e di guerre compresa tra due grandi riserve nazionali di fauna lacustre, la San Pablo Wildlife Bay a nord, e la Don Edwards Wildlife Bay a sud – una specifica dimensione monumentale che trova la sua icona più significativa nel Golden Gate Bridge. Una monumentalità ulteriormente contaminata da influssi spagnoli ed europei, che hanno determinato eclettiche commistioni linguistiche. Eppure, al di la del celebre ponte, colpiscono due opere di architettura, monumentali appunto, diverse, ma accomunate dal tema dell’esposizione artistica. Le separa quasi un intero secolo: sono il Palace of Fine Art, realizzato da Bernard Maybeck nel 1914 e il De Young Memorial Museum di Herzog & de Meuron, realizzato nel 2005. Da una parte un monumentale esercizio di stile neobarocco che domina un paesaggio d’acqua; dall’altra una monumentale sfida di torsioni e sbalzi avvolti da un membrana in rame. Due opere rilevanti per i loro tempi, inconfrontabili per concezione dello spazio, che restano nella memoria proprio in quanto estremi temporali e linguistici di una contraddittoria modernità.
Il meno e il più (Los Angeles 2016) – Play video Going to California
Una sterminata pianura punteggiata da improvvisi rilievi collinari, compresa tra la costa del Pacifico e i monti di Angeles Forest e San Bernardino Forest, è la condizione geografica di una megalopoli che si estende senza soluzione di continuità da Santa Monica e Pasadina a nord-ovest sino a Newport e Santa Ana a sud-est. Los Angeles è metropoli orizzontale allo stesso tempo ad alta densità di copertura del suolo e a bassa densità abitativa. Quindi un tessuto di case basse tra le quali si alzano edificazioni collinari e grattacieli di downtown. A Los Angeles non ci sono mezze misure: il meno è nel carattere anonimo del suo uniforme ed infinito reticolo stradale, nella qualità ordinaria delle costruzioni, nella scarsa caratterizzazione della sua middle class.Il più è nei preziosi edifici di inizio Novecento che qua e là emergono dalla mediocrità, nella eccellenza dei suoi musei, nella fauna umana che popola i quartieri hollywoodiani. In architettura il contrasto si manifesta anche nelle elitarie residenze collinari sospese tra il minimalismo razionale di derivazione europea (Richard Neutra, Rudolf Schindler e loro allievi) e il prezioso eclettismo di F.L. Wright. Ma anche nella inaspettata presenza di edifici pubblici oltremodo formalizzati, come le prime opere di Frank Gehry a Venice o la sua Walt Disney Concert Hall nella Downtown, e le bizzarre architetture di Eric Owen Moss che hanno stravolto la tradizionale semplice forma a capannone degli studios cinematografici.
Dalla strip al pop (Las Vegas 2016) – Play video Going to California
La strip si è contorta sviluppando tentacoli. La scansione spazio-temporale di un unico percorso si è aperta in slarghi, incroci, moltiplicata su più livelli con rotaie e percorsi pedonali sopraelevati. I suoi bracci si infilano negli edifici, attraversano giganteschi spazi coperti , fuoriescono dai grattacieli costruiti per durare solo il tempo necessario alle plusvalenze dell’investimento, prima di essere demoliti e ricostruiti più grandi, più luminosi, più tecnologici, più volgari, in definitiva più inutili. Las Vegas oggi non è quella descritta da Robert Venturi insieme a Denise Scott Brown e Stiven Izenour nel celebre, dirompente libro pubblicato nel 19726. Eppure tutto era contenuto nel suo DNA di iscrizioni, figure e sequenze luminose descritte da Venturi, che accompagnavano il percorso in automobile lungo il boulevard, per comunicare il senso di una sfrontata utopia realizzata, dedicata al gioco, al divertimento e al denaro. Las Vegas di oggi è la rappresentazione perfetta di come l’architettura e la metropoli contemporanea – almeno quella delle downtown – più che sostanza sia immagine. Ma è una immagine che ti attrae e subito dopo ti allontana. Richiama figure già viste, sembra familiare, ma è terribilmente estranea. Non è più una strip da percorrere, ma un videogioco da attraversare. E’ come entrare dentro l’universo di internet e muoversi dentro, cambiando con un click pagina e scenari.