
Torno a parlare di cinema, sempre con l’intenzione di non scrivere una recensione, ma di cogliere alcune questioni che il film propone. In questo caso il film è Yalda, Gran premio della Giuria come film straniero al Sundance Festival. Autore è l’iraniano, Massoud Bakhshi, ma la produzione è europea, e difficilmente sarà proiettato in Iran (cfr in proposito su questo stesso blog scritti, video e immagini con parola chiave Iran S-velata).
Il film (attualmente visibile su piattaforma SKY, ma in probabile uscita nelle sale) racconta di una giovane donna che ha ucciso il marito – non si capisce bene se volontariamente o involontariamente – e che per la legge iraniana deve essere condannata a morte, a meno che un rappresentante della famiglia della vittima non la perdoni e ottenga dal colpevole un congruo risarcimento economico. Nel caso specifico la decisione spetterebbe alla sorella del morto. Ma la colpevole non è in grado di provvedere al risarcimento e una piattaforma televisiva ottiene di potere trasmettere in diretta la decisione, in cambio di un boom di ascolti a fronte del quale, nel caso di perdono, gli sponsor pubblicitari si incaricherebbero di versare il risarcimento alla famiglia.

Senza aggiungere altro alla trama, sottolineo tre questioni in evidenza nel film. La prima è che il problema della pena di morte è lungi dall’essere risolto in Iran, paese di gente mite, ma sottomessa ad una religione spietata e contraddittoria che impone il concetto di occhio per occhio e punizione corporale. A differenza di altre religioni monoteiste che, senza invadere il campo della giustizia civile, si confrontano con l’evoluzione dei concetti di umanità e rispetto della vita, il fondamentalismo islamico regola il diritto secondo leggi coraniche antiche e immutabili, rendendo difficile una opposizione alla pena di morte che in Iran inizia a diffondersi.

La seconda questione è il ruolo, o, meglio, la figura stessa della donna. Il film evidenzia il disagio delle due protagoniste femminili e lo traduce in un esasperato confronto visivo con le figure maschili: il conduttore, addobbato e luccicante come l’intero studio televisivo e il regista, determinato e implacabile che emerge dal buio del backstage. Le due donne, secondo l’obbligo, sono avvolte in abiti cupi pesanti, che lasciano scoperto solo il volto, esasperando il loro ruolo di sottomesse, entrambe vittime sofferenti di un gioco crudele.


La terza questione forse le racchiude entrambe. Stupisce che un grande paese come l’Iran, che soffre un isolamento internazionale conseguente alle ingiustificate restrizioni imposte dagli Stati Uniti, ma anche l’intero mondo arabo, assumano gli aspetti peggiori del mondo occidentale e invece rifiutino alcune fondamentali conquiste civili di cui l’Occidente stesso si è fatto portatore. Così il mercimonio televisivo di un dramma familiare in cui è in gioco la vita di una persona a favore di sponsor commerciali viene pienamente accettato e addirittura inglobato nelle pratiche giudiziarie, tanto che nel finale entra in scena anche il giudice. All’opposto viene ancora più esasperata la condizione subordinata della donna, oggetto inerme dello spettacolo per un pubblico affamato di spazzatura televisiva.
IRAN S-velata, il video
Ottimo film e, al solito, accurata diagnosi. Grazie Umberto
"Mi piace""Mi piace"
Grazie!
"Mi piace""Mi piace"