
Non è facile mettere il “fenomeno Corviale” insieme ad una serie televisiva; ovvero un tema caro agli architetti e agli studiosi della città, il “mostro metropolitano” per 6.000 inquilini (come lo chiamava il compianto Tonino Terranova), sofferto dagli abitanti e osteggiato dai Romani che lo chiamano “serpentone”, come contesto di Christian, film in 12 episodi (due stagioni) scritto e girato negli ultimi 3 anni e recentemente uscito su SKY.

La serie è quasi interamente ambientata all’interno del gigantesco edificio, costruito quasi mezzo secolo fa, quando la ricerca e i progetti sulla edilizia economica e popolare rilanciata da specifiche leggi di attuazione cercarono di risolvere il problema della casa restituendo dignità alle periferie delle grandi città assediate dalla speculazione edilizia e dall’abusivismo, esiti negativi del furore costruttivo del dopoguerra. Purtroppo, la grande dimensione dei nuovi quartieri che venivano concepiti con alta densità abitativa per un elevato numero di alloggi (in alcuni casi anche superiore ai 30.000 abitanti), finì per coincidere con la grande dimensione dei singoli edifici. A Roma il Corviale, a Napoli le Vele, a Palermo lo Zen, a Milano il Gallaratese, a Trieste il Rozzo Melara… ma erano molti in tutta Italia.

Il primo impatto alla visione della serie Christian riporta lo spettatore alle ambientazioni e vicende di Gomorra, la serie, sempre di SKY, che aveva lanciato la produzione italiana nella distribuzione internazionale delle grandi piattaforme in streaming. Ma il realismo della Gomorra di Ciro e Genny viene presto smentito dal carattere “fanta-mistico” – non sono capace di definirlo meglio – della storia (ispirata a Stigmate, graphic novel di Piersanti e Mattotti), di un malfattore redento, Christian, al quale compaiono stigmate e la capacità di compiere miracoli estremi. Ma la componente sovrannaturale è continuamente smentita da una carica di ironia tutta “romana” e dalla efficacia realistica di una città compressa in un unico edificio.

Dunque, il soprannaturale diventa accettabile, anzi stimola nello spettatore alcune considerazioni. La prima è che il bene e il male non sono categorie rigide, ma fluide: escludono il bianco e il nero, ma si muovono in un campo di tonalità grigie e nell’interscambio di ruoli che crea sconcerto. Basta leggere le numerose recensioni che compaiono in rete per capire che le interpretazioni della storia sono diverse e contraddittorie, certamente esito di un gioco sornione di sceneggiatori e registi. La seconda considerazione è che la coscienza umana non può essere guidata da schemi precostituiti, come la fede religiosa o l’ideologia, ma neppure da paura, odio o amore: è il “libero arbitrio” la potenza dell’uomo, la facoltà di seguire percorsi che solo l’individuo riesce a concepire. La terza considerazione è che l’utopia se non ha un progetto chiaro e contestualizzato, resta tale; dunque, irrealizzabile.

E qui torno alla mia sensibilità di architetto: mi sono sempre chiesto se Corviale, presto decaduta nel degrado fisico e sociale (che i due progetti di rigenerazione recentemente avviati da architetti donna, Laura Peretti prima e Guendalina Salimei dopo, per quanto validi, difficilmente potranno riscattare), sia stata una utopia arrivata troppo presto oppure troppo tardi. Probabilmente non è né l’una cosa né l’altra: ai progettisti di allora – me compreso – vittime di una sopravvalutata autoreferenzialità, è forse mancata non tanto la capacità di seguire l’insegnamento della storia, quanto quella di interpretare il presente.
