Continuando a riflettere sul cinema italiano, sempre più mi convinco che la produzione cinematografica affidata a sceneggiatori, registi ed attori già affermati – escludendo naturalmente alcuni “mostri sacri” come Garrone, Sorrentino, Virzì e pochi altri – resta confinata in un ambito di mediocrità dal quale emergono pochissime eccezioni. Al contrario, di anno in anno esce qualche buon film tra quelli di sceneggiatori e registi esordienti (o quasi), soprattutto quando hanno avuto la fortuna di essere stati selezionati in festival importanti. Quello che soprattutto colpisce è l’abilità di questi registi nel dirigere attori senza grandi esperienze o non professionisti. Un merito a volte superiore a quello di tanti autori affermati, che sembrano non solo trascurare la coerenza della sceneggiatura, ma anche la guida degli attori, anche di fama, i quali finiscono spesso per replicare una immagine stereotipata di sé stessi.
Quindi non mancano buoni film di autori più giovani o meno noti. Tra gli altri ne ricordo tre degli ultimi anni: nel 2014 Anime Nere di Francesco Munzi; nel 2015 Non Essere Cattivo di Claudio Caligari; nel 2016 Fiore di Claudio Mollo – cfr su questo blog: https://umbertocao.com/2016/05/30/fiore-un-bel-film-una-grande-interprete/ – Non è un caso che tutti questi film raccontino il tema del malessere giovanile sospeso tra emarginazione e illegalità, e sviluppino il loro spazio narrativo nei territori marginali o periferici del nostro paese e delle nostre città.
Per meriti e tematiche si inserisce in questo filone Cuori Puri (2017), una “opera prima” scritta e diretta da Roberto De Paolis, bene interpretato da Selene Caramazza e Simone Liberati, presentato quest’anno nella Quinzaine di Cannes. Il film racconta la storia d’amore di due giovani apparentemente diversi, ma in realtà accomunati dalla stessa insofferenza per una vita di costrizioni: lui, ruvido custode del parcheggio di un supermercato “assediato” da un insediamento Rom; lei passiva frequentatrice della locale parrocchia, governata da un prete preoccupato soprattutto di proteggere la castità prematrimoniale.
Il recinto che circonda lo spazio del parcheggio – una specie di “piazza” del racconto – diventa la metafora di queste costrizioni. Nonostante la centralità dei due protagonisti e una fotografia che privilegia i primi piani e il dettaglio, sullo sfondo si sente forte la presenza della periferia romana con i suoi drammi quotidiani: la disoccupazione, il problema della casa, la droga, il conflitto tra abitanti e comunità Rom, la sopraffazione e il furto. Una periferia che è sola e senza legalità. Unica autorità presente è la parrocchia, apparentemente volta a dare un senso al quotidiano e aiuti materiali ai Rom. Ma in realtà è una presenza altrettanto soffocante e claustrofobica: il prete è “moderno” solo all’apparenza, perché sottomette la formazione vangelica degli adolescenti che la frequentano ad una ossessione sessuofobica.
In questa condizione di difficoltà materiali e repressione sessuale, l’unica libertà che si può conquistare è quella dell’amore. Così il sesso, desiderato, ma vissuto come peccato, diventa l’unica espressione di purezza. Un grido di libertà nel deserto della periferia.