La città contemporanea: smart, global o infelice?

Light trails above buildings
 Città digitale

La retorica della Smart city è nata dal concetto che le reti digitali opportunamente integrate e considerate come armatura strutturale, possano restituire alla metropoli contemporanea una dimensione equilibrata e sostenibile: una città cablata come fonte di sviluppo. In realtà il termine Smart city ha assunto valori diversi, assegnati dai volta in volta da discipline accademiche, interessi professionali, marketing aziendale e lobby di potere, che lo hanno orientato verso finalità non sempre convergenti. Tracciando una sorta di interpolazione tra le varie interpretazioni, possiamo affermare che la Smart city di fatto già esiste in episodi urbani circoscritti o in singole architetture, ampiamente controllate dalla domotica o da sistemi telematici. Il fine sembra essere quello di risparmiare energia, migliorare la salute e la mobilità, rendere più efficienti i servizi e più produttivo il lavoro. Insomma una città efficiente nel senso pieno della parola. Fin qui è anche condivisibile. Il problema si pone quando queste finalità e queste procedure vengono considerate generatrici di qualità urbana. Perché non esiste una “qualità” che discende meccanicamente dalla “efficienza”. Allora il mito della la Smart city diventa una retorica che fornisce modelli facili, emozionali ed effimeri. Un sistema troppo scontato per rifondare quella fiducia nella tecnologia e nel progresso che la modernità aveva affermato e che oggi sembra perduta. Troppo costruito sull’esaltazione di una digitalizzazione universale fondata su bolle di benessere individuale. E tutto, senza forma, renderà “brutta e volgare” la città. (estratto da uno scritto dell’autore pubblicato su FAmagazine. Ricerche e progetti sull’architettura e la città, rivista on-line)

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Smart city

Così la Smart city, come idea di città, resta patrimonio delle grandi potenze della tecnologia digitale (il mondo ICT, Information and Communication Technology) e sembra adattarsi soprattutto a dimensioni urbane ristrette. Ma nella realtà delle grandi metropoli la city da smart diventa global. In un recente articolo dal titolo Il mondo nuovo e le sue città (Il Foglio, inserto sabato 24 – domenica 25, marzo 2018) Stefano Cingolani riflette sul paradosso secondo cui la recente crisi economico-finanziaria ha determinato il consolidamento della cosiddetta città globale o, meglio, metropoli globale. Definizione non certo nuova, ma che si è concretizzata proprio negli anni che hanno visto da una parte l’abbattimento dei valori immobiliari e dall’altra flussi di danaro a basso costo investiti nella espansione delle metropoli.

Senza escludere il rischio di una grande bolla finanziaria dovuta agli eccessi di edilizia invenduta, attualmente le grandi città del mondo occidentale e di quello orientale avanzato sono cresciute sia nella capacità di attrarre investimenti sia nella qualità della modernizzazione. Ma quali sono i caratteri distintivi della metropoli globale? A differenza della Smart city che ci appare come una macchina, una sorta di città-computer nella quale l’hardware è costituito dagli edifici e dalle infrastrutture e il software dalla gestione digitale integrata delle comunicazioni immateriali, la Global city è un sistema urbano più complesso. Questa, infatti, oltre a contenere il massimo dello sviluppo cibernetico e delle connessioni in rete (relazioni immateriali), ha bisogno di contare anche su relazioni fisiche (materiali) triangolate su tre fattori: economia, infrastrutture e cultura.

Economia. Frequentata dalla élite del mondo, la metropoli globale deve offrire la possibilità di incontri e strette di mano tra operatori finanziari, investitori, amministratori e politici nei luoghi deputati, come congressi, fiere, esposizioni, eventi sportivi e commerciali.

Infrastrutture. In questa metropoli il sistema della mobilità e dei trasporti deve presentare la massima efficienza ed il massimo della innovazione tecnologica nell’offerta residenziale e in tutti i servizi e le attrezzature urbane.

Cultura. Infine la metropoli globale deve proporre un alto livello e una ampia varietà di offerta culturale, dalla formazione universitaria al museo, dal teatro al cinema, dalla musica classica al concerto rock. Tutto questo porta la metropoli globale ad un benessere diffuso che si caratterizza, culturalmente ancora prima che politicamente, in termini liberali e progressisti, ma comunque riformatori e tolleranti.

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New York Global city

Tutto bene? Certamente no, perché l’inevitabile rigonfiamento del costo della vita innalza barriere. Così la metropoli globale se da una parte attrae ricchezza, dall’altra genera esclusi e rischia di creare periferie che accumulano il disagio e accrescono le diseguaglianze. Dunque il sistema si regge solamente quando è supportato da una politica forte di sostegno della povertà, dell’occupazione e degli investimenti pubblici: la capacità quindi di tradurre una emancipazione economica e culturale in azioni riformatrici e illuminate. Questo equilibrio, secondo la classificazione dell’Università inglese di Loughborough riportata nell’articolo di Cingolani, sembra raggiunto da città come New York e Londra, quindi Parigi e una sequenza di metropoli orientali (come Singapore, Pechino, Tokyo, Shangai e Dubai). Seguono altre città europee e nord americane. In Italia solo Milano è nel gruppo qualificato. Roma è tra le ultime, insieme ad Atene, Bangalore, Bucarest, Il Cairo ed altre del sud America. Con tutti i limiti ed i fenomeni della globalizzazione, il transito in una dimensione urbana nella quale modernizzazione ed investimenti privati e pubblici devono essere spinti al massimo è ormai inevitabile per un paese che aspiri a competere a livello internazionale. La lotta contro la globalizzazione – che tradotta nella terminologia politica italiana suona come “decrescita felice” – o infelice? – e si fonda sulla paura per la modernità è esattamente il percorso opposto. Un percorso che non risolverà il problema delle emarginazioni e delle diseguaglianze, anzi, privando la metropoli del suo nucleo propulsore e rappresentativo, tenderà inevitabilmente a periferizzare le centralità, omologando mediocrità e indifferenza. Ed è quello che sta capitando oggi a Roma.

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Roma, Ostiense, area centrale degradata

Stefano Cingolani conclude così la sua lucida riflessione sulle città del mondo nuovo: “La fuga nel paesello, l’economia del villaggio, il chilometro zero, tutto quello che dà una patina gauchiste a un movimento che nella sostanza si caratterizza come reazione alla modernità, non è un sogno, ma una illusione; il futuro, anzi, il presente, è altrove.”

 

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